La staffetta dei giovani
20 | Il Ponte rosso N° 62 | nov | Sabrina Di Monte
Joyce con Svevo, Pound con Joyce: storie parallele nelle quali un giovane salva, con un’intuizione geniale, l’opera dell’amico più anziano
Sabrina Di Monte
Siamo nel 1907, e James Joyce è a Trieste da circa tre anni. Per sbarcare il lunario, impartisce anche lezioni private di inglese a personaggi altolocati e alle loro figlie.
I suoi allievi spesso appartengono alla ricca borghesia ebraica e a loro si aggiunge il signor Hector Schmitz (alias Italo Svevo) che, lavorando nella ditta di famiglia della moglie, Livia Veneziani, ha bisogno di migliorare il proprio inglese. La ditta Veneziani produce infatti efficacissime vernici antivegetative per scafi nautici e uno dei suoi principali committenti è proprio L’Ammiragliato Britannico. Il signor Schmitz va spesso in Inghilterra, dove i Veneziani hanno anche aperto una filiale, non lontano da Londra.
È così che Joyce comincia a recarsi, a partire dal settembre 1907, a Villa Veneziani, dove tra il giovane docente e il più maturo allievo si instaura ben presto un rapporto fondato soprattutto su una profonda affinità letteraria e culturale. James Joyce ha 25 anni, Italo Svevo 43, eppure Svevo capisce presto che questo giovane irlandese, squattrinato e allampanato, di letteratura ne capisce, eccome. Gli propone, quasi timidamente, di leggere i due romanzi (Una Vita e Senilità) che ha pubblicato a proprio spese e che sono passati quasi del tutto inosservati. Racconta anni dopo la figlia di Svevo, Letizia: «Durante una delle prime lezioni disse loro (ndr a Svevo e alla moglie) che era uno scrittore, che aveva pubblicato una raccolta di poesie, Chamber Music (1907) e che aveva composto un romanzo, A Portrait of the Artist as a Young Man (o Dedalus) e i racconti Dubliners. I miei genitori ne furono subito entusiasti: mamma si recò in giardino e portò a Joyce un mazzo di rose. Allora papà timidamente gli disse: “Sa, anch’io ho scritto; ma ho scritto due libri che non sono stati riconosciuti da nessuno”».
Joyce quei due libri se li porta a casa, ma è perplesso; una volta letti però dice con entusiasmo a Svevo la famosa frase: «Ma lo sa che lei è uno scrittore negletto? Ci sono dei brani in Senilità che neppure Anatole France avrebbe potuto scrivere meglio».
Questo è un momento essenziale nella vita dello scrittore Italo Svevo, che vive la sua pulsione a scrivere quasi con vergogna e senso di colpa, come se la scrittura togliesse tempo ed energia all’attività di famiglia, inutilmente, visto la mancata reazione di critici e pubblico. Senza questa iniezione di fiducia, forse Svevo non avrebbe osato scrivere e pubblicare nel 1923 il terzo romanzo, il suo capolavoro, La coscienza di Zeno; di nuovo a proprie spese, di nuovo ignorato.
Svevo manda il romanzo a Joyce, ormai a Parigi, e Joyce ne rimane entusiasta. Lo raccomanda ai critici francesi Valery Larbaud e Benjamin Cremieux, che lo pubblicheranno in una prima traduzione parziale. Ed è così che La Coscienza arriva ai critici italiani e a Montale, che scriverà nel 1925 il saggio critico Omaggio a Svevo.
Di nuovo Letizia: «Ricordo la sua felicità…Più di trent’anni (1892-1925) di attività letteraria svolta nel silenzio. Non manifestava la sua disperazione; alla mamma, semmai. Ma aveva deciso di non scrivere più… Aveva 64 anni quando la critica si è accorta di lui. È morto a 67 anni. La sua gloria (appena tre anni di vita) la doveva a Joyce».
Joyce è a Parigi già dal 1920 quando Svevo gli invia La coscienza di Zeno; ci arriva preceduto dalla fama di “padre del modernismo”. Sempre senza soldi, sempre più afflitto dai suoi problemi familiari e di vista. Ha 38 anni ed è preoccupato per la sorte dell’Ulisse. Parti dell’opera sono infatti apparse sulla Little Review in America e la rivista Egoist in Inghilterra, ma hanno causato problemi con la censura e il pubblico.
A Parigi, nell’estate del 1920, a casa del poeta André Spire, che per Joyce aveva organizzato una festicciola di benvenuto, la giovane americana Sylvia Beach, che un anno prima aveva aperto una libreria, la Shakespeare and Company, incontra per la prima volta lo scrittore irlandese.
È presente anche l’americano Ezra Pound che, nel 1913, quando Pound aveva 25 anni e Joyce 28, aveva scritto a Joyce a Trieste, proponendogli di mandargli quanto poteva per poterlo pubblicare su piccole riviste d’avanguardia («Collaboro in maniera informale con un paio di riviste giovani e squattrinate»). Benché biograficamente di poco più giovane di Joyce, era infatti molto più addentro al mondo culturale ed editoriale del momento.
Oltre alle poesie, Joyce gli aveva mandato i Dubliners, che non era mai riuscito a pubblicare, e un capitolo di A Portrait of the Artist as a Young Man (Ritratto dell’artista da giovane). Grazie all’entusiasmo di Pound, era iniziata così la diffusione delle opere di Joyce: dai Dubliners (1914), ai primi capitoli di Ulysses (1918), che Pound era riuscito con fatica a far pubblicare, revisionati da lui e a puntate, sulla Little Review. Joyce stesso riconobbe che senza Pound sarebbe «rimasto probabilmente quello scribacchino sconosciuto che lui scoprì».
È ancora Pound che aveva incoraggiato Joyce a trasferirsi a Parigi, che lo aveva aiutato economicamente, e introdotto nei circoli letterari parigini come quello dove Joyce incontra Sylvia Beach.
Sylvia Beach, nata Nancy Woodbridge Beach a Baltimora nell’1887, ha quindi 23 anni quando, emozionata, stringe la mano di James Joyce, trentottenne. Lo scrittore in questa e altre occasioni, durante le visite alla Shakespeare and Co., le racconta della propria frustrazione e del timore che l’Ulisse non venga mai pubblicato in volume.
La Beach, benché senza esperienza e senza mezzi, si propone come editore e, grazie anche ad una pubblica sottoscrizione, riesce nel progetto di pubblicazione e consegna nelle mani del suo autore, il giorno del suo quarantesimo compleanno, la prima copia di Ulysses. È il 2 febbraio 1922.
La storia si ripete quindi: un giovane che salva, con un’intuizione geniale, l’opera dell’amico più anziano, le cui speranze si sono ormai afflosciate e rivivono grazie al suo entusiasmo e al suo spirito di iniziativa.
Questo binomio è presente anche nell’Ulisse: Stephen Dedalus – alter ego del giovane Joyce nel A Portrait of the Artist as a Young Man) – è anche Telemaco, il figlio di Ulisse, e quindi il figlio perduto di Leopold, che a sua volta costituisce la parodia dell’eroe greco, l’anti-eroe. Stephen è colto, spirituale, problematico, estetizzante. I suoi orizzonti non sono gli orizzonti limitati di Leopold Bloom, caldo, umano ma con slanci poveri e di breve respiro. Nel penultimo episodio dell’Ulisse, “Itaca”, alle due di notte e dopo un lungo girovagare, Leopold invita Stephen a casa sua, dove i due parlano del loro passato e degli amici comuni. Leopold spera di riuscire a farlo restare:
Quale proposta fece Bloom, diambulo, padre di Milly, sonnambula, a Stephen, nottambulo?
Di trascorrere in riposo le ore intercorrenti tra il giovedì (virtuale) e il venerdì (reale) su un giaciglio improvvisato nel locale immediatamente sopra la cucina e immediatamente contiguo alla camera da notte dei padroni di casa.
Quali svariati vantaggi sarebbero derivati o sarebbero potuti derivare da un prolungarsi di detta improvvisazione?
Per l’ospite: sicurezza di domicilio e isolamento per lo studio. Per il padrone di casa: ringiovanimento dell’intelligenza, soddisfazione indiretta. Per la padrona di casa: dissoluzione di un’ossessione, acquisizione di una corretta pronuncia italiana.”
(dall’episodio “Itaca”, nell’Ulisse. Traduzione di Enrico Terrinoni, Newton Compton, ed. 2012.)
Ma Stephen rifiuta e va via. Giovinezza e maturità, arte e vita, padre e figlio. Si sono incontrati, reciprocamente nutriti, e ora si separano.
In tempi così difficili per i giovani, in un paese che ha da tempo smesso di investire su di loro, questi esempi di vita e letterari, servono forse a ricordare che, se le doti della maturità sono certamente l’esperienza e la resilienza, quelle della gioventù sono l’entusiasmo, il coraggio, la speranza, il “ringiovanimento dell’intelligenza”, appunto, e una visione futura, anche nei momenti più scuri.