La Trieste celeste di Marani

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Bello specchio, per triestini e non, questo Bildungsroman che insegna a guardarsi dentro attraverso il filtro di una città

di Fulvio Senardi

 

«Trieste è spettacolare!», garantisce Beppe Severgnini sulle pagine del Corriere della sera. L’occasione per manifestare tanto entusiasmo è offerta dall’uscita, per la Nave di Teseo, della Città celeste di Diego Marani. A legger bene il trafiletto rimane in dubbio se il simpatico Beppe abbia veramente letto il libro; ma, in fondo, cosa importa? La segnalazione è utile e la traccia va seguita.

Veniamo dunque a Trieste, la città cui il titolo allude, e dove Marani ha trascorso gli anni di studio presso la Scuola superiore per traduttori e interpreti, vivendo l’avventurosa scoperta di un ambiente cittadino insieme concreto e sfuggente, città sul confine e di confini, dove sobbolle diffidenza ed astio, con un lungo passato di discriminazione e mimetismi, come esperisce il protagonista autobiografico approfondendo il rapporto con due ragazze della minoranza slovena. «Le anime di Trieste», osserva, «vivevano l’una accanto all’altra senza conoscersi, senza mescolarsi e io mi chiedevo se quella fosse davvero una ricchezza o non una maledizione. […] Il confine non era solo lassù nell’altipiano. Ce n’era un altro in città, fra la sua gente». Il lungo soggiorno triestino che per un certo verso rappresenta una ruvida iniziazione alla vita, diventa, per un altro, la tappa cruciale di un’appagante educazione amorosa, sul filo di un deliberato, fitto gioco di scambi condotto nel nome di Saba fra donna e città. Eppure il sentimento dell’uomo fatto che calpesta dopo quarant’anni il selciato delle rive triestine non è la nostalgia per passioni ormai sfiorite, tanto remote che il cuore non le cerca più; no, «se sono tornato qui è perché ho capito che non era di Vesna o di Jasna che ero innamorato. Ma dei miei vent’anni, che qui sono andati in scena e ancora si replicano […] da una generazione all’altra. È la magia di questa città scontrosa, la mia città celeste, dove un giorno sono stato immortale. Questa città che se ne fa un baffo del tempo che passa, che non la smette di tramontare, che si sventa ogni futuro, che conquistare è inutile e cambiare impossibile, una città che sarà sempre di confine anche se oggi il confine non c’è più».

Celeste giovinezza dunque nella città che si lascia scoprire a poco a poco e, per traslazione, celeste città come un miraggio che guizza all’orizzonte, del colore che piaceva a Saba. Se mancano le descrizioni “minuziose” (che un recensore invece ha creduto di scorgervi), ciò che Marani coglie, e restituisce con la penna intinta del dolce-amaro del ricordo, sono le atmosfere e i luoghi, subito ascritti a topografia dell’anima, schegge del microcosmo senza tempo dove da studente ha scelto di esiliarsi. Il narratore mette così a frutto una non comune capacità di ascolto nel sapiente tastare cicatrici e ferite sotto la calma apparente di una scorza neo-classica, nella città apparentemente in letargo, ma dove la bussola tende ad impazzire e il calendario a scivolare indietro, dentro gli abissi del più crudele tra i secoli.

Con la precisione di un navigato aforista Marani allinea le indimenticabili istantanee di una Trieste assolutamente tipica: la compostezza insieme ospitale e sospettosa della famiglia Kovač (caspita!, finalmente uno scrittore d’oltre Isonzo che mette l’accento giusto); i perigliosi passaggi di confine (questo almeno ci è oggi risparmiato) tra le donne di servizio che rientrano in Croazia (ben prima che, rassegnate, cedessero spazi e salari alla massa delle badanti); le soste nella chiesa greca, per ascoltare, messa in musica, una delle «mille anime» di Trieste (di cui tutte aveva bisogno «per essere se stessa, per rimanere libera dalla sopraffazione di chi la voleva tutta uguale, conforme e devota a una sola patria»); i matti della capitale della rivoluzione basagliana, che, danzando intorno ad una falò, festeggiano la morte della malattia come stigma e reclusione («fra un padiglione e l’altro si stava allestendo il grande falò che la sera avrebbe bruciato, assieme a stracci e  vecchi mobili, il fantoccio della pazzia e della malattia»); i vecchi della città che ne detiene il primato, petulanti e prepotenti, una massa indistinta ma sopraffattrice che marcia compatta come una falange macedone assiepandosi alle fermate dei bus: «solo di vecchi sembrava popolata. Si muovevano a sciami per le strade, salivano come cavallette sugli autobus, rancorosi, musoni, dispettosi. […] Ci detestavano, non perdevano occasione per importunarci, per maltrattarci […]. Erano vecchi vigorosi e tenaci, mica i fragili vecchietti bisognosi di un sostegno per attraversare una strada, un’altra razza di vecchi […]. La vecchiaia a Trieste pareva contagiosa, un’epidemia che dilagava inarrestabile per la città e che copriva di rughe chi ci arrivava, scaraventandolo nel rimpianto e nel risentimento». A garantire varietà d’accento, a tante parti dove l’affabulazione è sinuosa ed avvolgente si contrappongono momenti di intonazione diversa; il timbro riflessivo, evocativo, malinconico cede allora il posto al burlesque: certe figurine, modellate con l’umorismo del paradosso, virtuosistici puzzle di eccentricità che profumano di romanzo americano, a descrivere i compagni di vita e di studi del futuro “traduttore-interprete”; ci viene così incontro Benni, con le sue diciassette salsicce, o l’inglese Chris, uno sciatore-calciatore che la mala sorte ha però privato delle braccia, e insieme a loro numerosissimi altri figuranti, fino al felice ritrattino di Samantha, «con i piedi larghi che poggiava come zampe d’anatra quando camminava, facendo sporgere le dita dai sandali».

Pagine che, possano piacere oppure no, danno testimonianza dell’ampio diapason della scrittura, e intrecci di vite che per lo più si affacciano su via San Nicolò, la strada della Libreria antiquaria dove il protagonista, non forse del tutto casualmente, ha scelto di abitare. Ma più che a Saba, il genius loci con cui è in debito il romanzo per la sua compiuta “triestinità” è Italo Svevo; e non mi riferisco ai rimandi più espliciti, una visita a casa Kovač, per esempio, che fa sentire il protagonista uno Zeno a casa Malfenti. Come nella Coscienza la “città celeste” è la scena di un serrato conflitto edipico. C’è la città del Padre, uggiosa nel sempiterno sentore di umido delle sue nebbie persistenti (difficile, aggiungo, condividere questa visione della splendida Ferrara, di «deserta bellezza» e di «vie piane» come cantava l’Immaginifico; ma, si sa, quando l’Edipo ci mette lo zampino …): «una città che io sentivo lambita dalla noia come un’acqua alta che ogni volta la risparmiava ma che un poco di più l’affondava, tanto adatta a papà e invece a me così ostile». E c’è la città misteriosa e difficile, porta socchiusa per esperienze fino ad allora negate, celeste come i più impalpabili inganni di Morgana, dove il protagonista perfeziona, nello studio, negli amori, nella quotidianità di un vivere bohémien il suo gesto di sfida, il suo “no” alla disciplina paterna («Addio alla città amara di papà!Io cambiavo patria e perfino lingua. Entravo in un mondo nuovo, in una vita nuova, dove mi aspettava un altro me stesso»); pur coltivando il sospetto che l’ombra lunga del genitore lo raggiunga, lo sovrasti e continui a orientare il suo destino: «sentivo che la mia era stata una fuga assistita, una concessione e non una conquista. Perfino la Trieste che cominciavo a sentire mia era in fondo una creatura di papà».

Bello specchio, insomma, per triestini e non, questo Bildungsroman che insegna a guardarsi dentro attraverso il filtro di una città. Abbandonandosi agli echi della sua ultima parola (un assai eloquente «senilità») si chiude il libro con la sensazione di aver ritrovato ciò che già si conosceva, ma con contorni fatti come più nitidi. Prerogativa della letteratura, quando ha qualcosa da dire.

 

Diego Marani

La città celeste

La nave di Teseo, Milano 2021

  1. 199, euro 17,00