Il Sessantotto all’Università Cattolica

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La contestazione nell’Università cattolica non è esplosa per le diaboliche influenze marxiste, ma per le contraddizioni interne al mondo cattolico

di Aldo Marchetti

 

La mobilitazione studentesca all’Università cattolica inizia ufficialmente il 17 novembre del 1967 con la prima occupazione dell’ateneo e continua senza interruzione, tra occupazioni, assemblee, blocchi delle lezioni, manifestazioni e cortei, accampamenti davanti ai cancelli chiusi e presidiati dalla polizia, scioperi della fame, sino al giugno del 1968, per riaccendersi, anche se con minor forza, nell’autunno successivo. Lo scontro più violento con le forze dell’ordine in quell’anno milanese è avvenuto davanti ai suoi cancelli il 24 marzo e fu subito definito: la battaglia di Largo Gemelli. Nessun’altra università milanese ha espresso un livello così elevato e continuo di conflittualità. La centralità dell’ateneo cattolico nel ’68 milanese è riconosciuta anche da due storici come Marcello Flores e Alberto de Bernardi che scrivono: «La Cattolica fu indubbiamente uno dei laboratori politici più significativi di tutto il ’68, soprattutto per il suo alto grado di permeabilità alle esperienze esterne: qui si vennero precisando – lungo indirizzi assai simili a quelli che si venivano delineando a Torino e a Trento – la strategia dell’uso alternativo dell’università attraverso i contro-corsi e del controllo politico delle masse studentesche sui processi formativi che costituì una delle connotazioni salienti di tutto il movimento studentesco; qui si formularono alcuni obiettivi immediati, come la scansione mensile delle sessioni di esame, l’abolizione degli esami di ammissione in funzione anti-selettiva, il riconoscimento didattico dei contro-corsi e dei seminari organizzati dal movimento come parte integrante della propria attività politica che si sarebbero poi estesi a molte università italiane e che si sarebbero affermati come l’unico elemento concreto dell’azione del movimento destinato a durare nel tempo» (Flores M., De Bernardi A., Il Sessantotto, Bologna, Il Mulino, 1998, p.216).

Perché un conflitto così aspro, così prolungato, proprio nell’ateneo dei cattolici italiani? L’irremovibilità delle autorità accademiche, la loro sordità, sono di certo una prima spiegazione ma non sono state molto diverse da quelle dei rettori delle altre università della penisola. Forse la ragione consiste in una frattura interna al mondo cattolico che già da tempo esisteva e che solo in quel momento è venuta alla luce.

C’è la tentazione in una parte del mondo cattolico di interpretare quegli anni come una sorta di deviazione, di temporaneo smarrimento della retta strada. Il mondo cattolico si sarebbe lasciato traviare dai maligni influssi del marxismo a cui il Concilio Vaticano Secondo avrebbe aperto uno spiraglio con la sua avventata apertura al dialogo tra la Chiesa e il mondo moderno. È probabile (anche se non posso dimostrarlo) che proprio nell’Università Cattolica ci sia, ancor oggi, qualcuno che la pensa in questo modo. Mi sembra un’interpretazione molto rozza. Credo invece che ci siano sufficienti motivi per ritenere che proprio all’interno del mondo cattolico fossero in opera stridenti contrasti tra difesa della tradizione e apertura alla modernità. L’Università cattolica era stata eretta in difesa del medievalismo (cioè del periodo storico, sepolto ormai da quasi mille anni di storia, in cui la Chiesa cattolica aveva detenuto l’egemonia culturale sul mondo occidentale) e lo studente, al conseguimento della laurea, ancora nel ’68, era tenuto a prestare un giuramento antimodernista. Si trattava di un rito arcaico e completamente fuori dal tempo.

La contestazione nell’Università cattolica non è esplosa per le diaboliche influenze marxiste, ma per le contraddizioni interne al mondo cattolico. Ho accennato a un flusso laico di critica del mondo borghese che risale, a dir poco, agli anni ’30 del secolo scorso, ma parallelamente scorreva anche una critica cattolica allo stesso mondo. Di contro alla quieta normalità predicata dalla morale borghese, Maritain, uno dei filosofi più amati dai giovani cattolici impegnati degli anni ’60, predica un umanesimo eroico. Il suo libro Umanesimo integrale inizia dicendo: «Non c’è nulla che l’uomo desideri tanto quanto una vita eroica.» (Maritain J., Umanesimo integrale, Torino, Borla, 1962, p. 57). È evidente che Maritain contrapponeva un eroismo cattolico all’eroismo proposto dal pensiero socialista come puro riscatto economico. Nel fare questo egli riprendeva il pensiero di un altro scrittore e filosofo cattolico: Charles Peguy, che predicava il carattere morale di una futura, possibile rivoluzione. Maritain e Peguy ritenevano che una rivoluzione, di fronte al degradarsi della vita collettiva indotto dal sistema economico capitalista, fosse probabile, ma si preoccupavano che avesse dei connotati morali e non solo economici. Che rispettasse l’integrità della persona e non sopprimesse la sua libertà. E su lunghezze d’onda non molto diverse si muovevano in quel periodo altri grandi personaggi della cultura cattolica, soprattutto francesi: Mounier nella filosofia, Bernanos nella letteratura, Bresson nel cinema, Rouault nella pittura. La loro fede era fortemente radicata nei problemi sociali del tempo. In Italia c’è stato, se non allora poco dopo, il periodo di padre Turoldo, don Primo Mazzolari, don Milani, delle riviste Il Regno, Testimonianze.

Agli inizi degli anni ’60 l’Azione cattolica, l’associazione dei cattolici italiani, formata in gran parte da giovani, contava attorno ai tre milioni e quattrocentomila iscritti (la Federazione giovanile comunista ne aveva solo duecentomila). I giovani cattolici trascorrevano gli anni che andavano dall’infanzia all’ingresso all’università nell’ “oratorio”, una sorta di istituzione totale dedicata alla preghiera, alla cultura, al gioco e al tempo libero, nella completa segregazione sessuale. Erano la Chiesa e i suoi sacerdoti che decidevano ciò che si poteva o non si poteva vedere al cinema, ciò che era consentito leggere, quali ambienti si potevano frequentare, se era lecito andare ai balli e alle festicciole. Era consigliato a ogni giovane di procurarsi un “direttore spirituale”, un sacerdote confidente incaricato di orientare la sua coscienza. Chi in terza liceo desiderava leggere La critica della ragion pura di Immanuel Kant (è il caso di chi scrive) doveva chiedere il permesso al vescovo poiché il libro era inserito nell’Index librorum prohibitorum. Era abbastanza ovvio che in quegli ambienti la voglia di trasgredire e di leggere L’Espresso, di vedere i film di Antonioni e di Pasolini, di leggere Pavese o Moravia, diventasse molto forte. Molti di quei ragazzi da oratorio, negli anni ’60, arrivavano all’Università cattolica da tutta Italia, con la lettera di presentazione dei loro parroci e vescovi. Non erano marxisti, casomai coltivavano dentro di sé un atteggiamento complesso nei confronti della vita, che poteva presentarsi anche con una forte ambivalenza: avevano una robusta tempra morale e allo stesso tempo una furiosa voglia di libertà.