L’amore a Trieste di Diego Valeri

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Il legame del poeta con il capoluogo giuliano rinsaldato dalle amicizie con Saba, Giotti, Stuparich e Anita Pittoni

di Gennaro Rega

 

Forse in una mattina di maggio del 1974 il poeta Diego Valeri si affacciò dalla sua casa veneziana di Fondamenta dei Cereri per osservare se la pioggia e il vento insistenti di quei giorni si fossero calmati. La primavera già di per sé non era stata calda. La sua mente iniziò a vagare sempre più lontana per percepire una luce più brillante, per cogliere profumi che gli parlassero di cambiamento o di ricordi trascorsi. L’impulso, ancora una volta, fu di trasferire in poesia quell’ “alleanza con la vita” che lo aveva finora salvato dalla disperazione. Evocò, così, con acuta nostalgia un periodo personale e professionale che aveva mantenuto caro. L’ispirazione si poteva alimentare grazie a quel sottile, quasi impercettibile filo di costa che sembrava mostrarsi a tratti all’orizzonte? Vi aveva scorto una qualche suggestione di Trieste.

 

Diego Valeri all’Università di Trieste nel Dopoguerra per alcuni semestri accademici aveva tenuto un corso di Lingua e Letteratura francese. Il capoluogo giuliano almeno fino alla metà degli anni Cinquanta continuò a frequentarlo con una certa regolarità. Amava quella città “di acqua, di sole, di vento”. La sentiva perfino poeticamente affine. Vi aveva trascorso molti momenti di serenità. L’amicizia di lunga data che aveva stretto con Giani Stuparich, Virgilio Giotti, Umberto Saba e, più recente, quella con Anita Pittoni aveva aperto anche a lui, di tanto in tanto, le porte dell’appartamento di via Cassa di Risparmio dove si riuniva un cenacolo di letterati che ritrovava consonanti con il suo fare poesia. Diego Valeri in quel momento viveva la sua piena maturità d’uomo e di docente. Era nato a Piove di Sacco (Padova) il 25 gennaio 1887. Dopo molte ansietà causate dal confuso Dopoguerra italiano, era finalmente sul punto di riottenere una cattedra universitaria stabile al Bo di Padova, che gli fu riconosciuta nel 1948. Ma soprattutto aveva avviato la fase poetica della “piena maturità conclusiva” come osserverà Alfonso Gatto, altro scrittore molto legato all’ambiente “zibaldoniano”.

 

Grazie alla collaborativa disponibilità del dott. Franco Casini ho avuto l’opportunità di consultare alcuni documenti presenti nel “Fondo Valeri” presso l’Archivio della Fondazione Cini di Venezia. In particolare missive e cartoline inviate a lui da Virgilio Giotti e da Giani Stuparich. I contenuti di questo fascio di scritti confermano il ricordo del carattere di Valeri come lo riportò il critico Pier Vincenzo Mengaldo: «un uomo sociale, cordiale, aperto al mondo e agli altri».

In un breve, arguto messaggio scritto il 7 gennaio 1946 così Giotti allude alla sodale frequentazione con lo scrittore patavino: «Raccolti in casa della Pittoni (come prima al bar, dove non andiamo più) ti mandiamo un saluto affettuoso. Una volta si mandava una cartolina; oggi non ce ne sono più, mi pare». Alla sua sono aggiunte le firme di Stuparich, Pittoni, Nina Stchekodoff, moglie di Giotti.

Non si può escludere che alcune rifiniture apportate da Valeri alla raccolta Terzo Tempo, edita da Mondadori nel 1950, siano state fatte proprio durante i periodici trasferimenti da Venezia a Trieste in quegli anni a cavallo fra il Quaranta e il Cinquanta. Lo si intuisce dalla lettera del 25 maggio proprio di quell’anno inviatagli dal poeta triestino: «Caro Valeri, ti ringrazio del libro. Ho letto con piacere tutte le poesie della prima parte derivate da Scherzo e finale [già pubblicate nel 1937, ndr] che non conoscevo […], mi ha commosso Mattino di settembre, la più bella. è tanto che non ci si vede. Se prossimamente, che, mi figuro, sarai qui per gli esami, farai in modo che ci si possa incontrare, lo avrò caro e, forse, anche tu».

Infine aggiungo uno scritto di Giotti dove garbatamente trapelano, quasi sotto traccia, le corrispondenze poetiche fra il poeta veneto e il gruppo dei “triestini”. è datata 28 dicembre 1951.

«Caro il mio Valeri, ti mando 3 inediti, tre poesie [In una matina in riva, April, Per una graia de campanele, ndr] che insieme ad altre poche, 18 o 20 in tutto, formeranno il libro, cioè il fascicoletto, che lo Zibaldone pubblicherà a primavera. Se te ne servirai per la lettura (vedi tu), accennando alla prossima pubblicazione del libro, farai, immagino, cosa gratissima alla Zibaldona, intendo alla Pittoni. In riguardo alle poesie che ho fatto dopo quelle di Sera (e sono tanto pochine) il mio giudizio è tutt’altro che sicuro. […] Non mi rimane che ringraziarti per questo ripetuto occuparti della mia poesia. Ti ascolterò. Saluti affettuosi e auguri di un bel 1952».

Va precisato che in realtà per la consueta, quasi maniacale, cura da parte di Anita Pittoni anche per i minimi dettagli tipografici il volumetto uscì soltanto nel gennaio del 1953.

 

L’epistolario con Giani Stuparich è un po’ più corposo. Entrambi anche prima della guerra, negli anni Trenta, avevano avuto occasione di incontrarsi durante viaggi di studio e di lavoro; avevano conoscenze comuni nell’ambiente universitario e letterario (nelle loro lettere si citano, ad esempio, Valgimigli, Bertacchi, Tecchi, Quarantotti-Gambini, Benco); si stimavano anche come autori. Infatti nelle lettere troviamo giudizi apprezzativi di Valeri su Nuovi Racconti stupariciani del 1935; sulla raccolta di prose Pietà del sole del 1942 e L’isola. A questo proposito vorrei citare la missiva da Portorose che Giani inviò a Diego nel settembre 1930. «Ho letto il tuo articolo [su La Rivista delle 3 Venezie, ndr] e non so dirti propriamente l’impressione che ne ho avuta. La mattina era meravigliosa di trasparenze e di luci, con quei toni caldi che ha il sole al mare. E il tuo discorso [si trattava di una recensione a Racconti, edito nel 1929 da Baratti, ndr] su di me si confondeva con la dolcezza dell’aria. Provavo piacere, commozione e vergogna insieme; vergogna di non meritare tutto il bene che dici di me. Il tuo articolo è pieno d’osservazioni profonde e illuminatrici, m’hai letto con intelligenza e simpatia, con quella accogliente bontà d’animo che mostri negli occhi […]».

Nella seconda parte di questa lunga lettera, l’autore triestino, senza giri di parole, si dichiara amareggiato e sorpreso per la recensione di Silvio Benco su Il Piccolo della sera riguardo al volume mondadoriano Poesie vecchie e nuove composto dall’amico Diego e pubblicato proprio in quell’anno. «Il nostro Benco è purtroppo stanco e logorato come critico, la smania di legger tutto e di parlare di tutti ha finito per fargli confondere i valori fittizi con quelli reali e mettere allo stesso livello opere le più disparate per entità e sostanza creativa. […]». è un pungente inciso, ennesima conferma dell’ insolubile disputa fra critici e autori i quali rivendicherebbero una attenta, equilibrata valutazione dei loro testi.

Trascrivo quest’altro appassionato giudizio di Stuparich su una raccolta di poesie dell’amico, presente in una lettera del 2 luglio 1942: «Caro Diego, la musica di questo tuo Tempo che muore è venuta a consolarmi. Il canto così lieve e dolce, che tu spremi dal tuo cuore, scioglie e fa vibrare in me sentimenti affini; mi hai commosso. La lirica, secondo me, dovrebbe avere sempre così un effetto di liberazione. Fra i tanti altri pregi ho ammirato, in questi tuoi versi, la fedeltà a te stesso, oggi che qualcuno crede di svecchiare la sua lirica con nuovi innesti […]».

Dunque, nonostante il trascorrere degli anni, la stima e l’affetto fra i due rimanevano intatti. Così nell’agosto del 1958, appena pubblicata la raccolta Il flauto a due canne, Giani invia questo messaggio: «Carissimo Diego, a leggere questi versi, che hai mandato in dono all’Anita e a me, ho provato un vero conforto: quello che ci dà la poesia, quand’è poesia (che è molto rara). è così squisita e aristocratica la tua chiarezza, così ricca di sensibilità e di echi profondi, pur nelle semplici cose, che non occorre cercar altro. Bravo, Diego caro; so quanto costi raggiungere una tale essenzialità e ammiro. […]».

Ma più tangibili testimonianze del forte legame fra lo scrittore patavino e la città giuliana, si trovano in questo testo epistolare, datato 10 dicembre 1951. Stuparich, entusiasta, scrive all’amico:

«Caro Diego, in questo momento finiamo di leggere il tuo Amore a [sic] Trieste” e ti mandiamo commossi un abbraccio fraterno. tuo Giani». La lettera ha una significativa aggiunta di Anita Pittoni: «Caro Diego, come vorrei che quel tuo articolo fosse stampato su tutti i giornali!! Voglio farlo conoscere, ma la rivista non è in vendita e lo voglio leggere alla seduta della Minerva, se come spero mi potrò procurare una copia. Ne avevano una ma per poche ore!! […]».

La Pittoni fu di parola. Infatti nella seduta della Società Minerva del 12 gennaio 1952 così veniva verbalizzato: «Il dott. Roberto Zuculin dà lettura di un articolo del prof. Diego Valeri […] Su proposta di Szombathely la “Minerva” si interesserà di ottenere alcune copie di detto fascicolo. Funaioli suggerisce che la “Minerva” invii a Diego Valeri una lettera di felicitazioni per quel suo articolo».

Ho consultato il verbale, che la fattiva collaborazione della sig.ra Giuliana Marini mi ha reso possibile, e sono così potuto risalire al numero 109 della rivista L’illustrazione del medico, del novembre 1951, dove Valeri aveva pubblicato quell’ articolo appassionatamente dedicato alla città, alla sua storia e alla sua cultura, intitolandolo Amor di Trieste. I lettori del Ponte rosso potranno ora leggerlo alle pagine che seguono.

Nell'”attacco”, che è di grande effetto, coglie con aderenza direi quasi fisica la personalità di Trieste: «Ha un’anima di mare, di sole, di vento. La sua carne, come quella di ogni altra città, è terra, pietra, mattoni: materia che non muta, se non per il lungo logorio del tempo. Ma la sua anima è un che di atmosferico, in mutazione continua, in continuo travaglio di rinnovamento […]». Completa il quadro, poi, con altre pastose pennellate sul paesaggio umano e naturale. Dedica quindi l’ampia parte centrale dell’articolo alle vicende storiche della città, raccontate con briosa precisione ma senza erudizione. E arriva alla contemporaneità. «La Trieste di oggi, come persona morale, è una creatura dei suoi poeti, dei suoi scrittori […] e si intende bene che dicendo Trieste in senso… morale e non puramente fisico, si dice al tempo stesso Istria: e si va subito col cuore a quelle piccole, adorabili città nostre, che ci appaiono, ora, così disperatamente lontane, e come velate di gramaglie tra i due splendori del cielo e del mare. Di fatto, poi, molti scrittori “triestini” sono istriani.” Nell’ultima parte dell’articolo, Diego Valeri sottolinea che «di tutte le arti la letteratura è quella che, di gran lunga, primeggia a Trieste […]». Per lui, esperto lettore e diretto conoscitore di gran parte degli autori e delle opere del Novecento triestino, “l’invenzione” e “il sentimento” che rendono questo luogo tanto particolare, scaturiscono dall’ispirazione dei poeti e degli scrittori che lo abitano o l’hanno abitato.

Nel corso del tempo, dunque, Diego Valeri si era convinto che la caratura di questa nostra città, la sua forza matrice andassero identificate con la Poesia e la Natura. La possibilità di ribadirlo di persona, e non soltanto attraverso il filtro della scrittura, si sarebbe potuta realizzare nel 1963. Tre anni prima egli era stato uno dei promotori dell’Associazione degli scrittori veneti. Il notiziario ufficiale di quella Associazione, Lettere Venete, auspice Diego Valeri, decise di organizzare un convegno sul tema “Scrittori e bibliotecari delle Tre Venezie a paragone”. L’avrebbe lui stesso presieduto e si sarebbe tenuto proprio a Trieste. Purtroppo il 3 marzo 1963, come riferirono ampiamente i giornali: Il Gazzettino, Messaggero Veneto, Il Piccolo, «l’annunciata relazione prolusiva del poeta Diego Valeri, non ha potuto aver luogo, in quanto il presidente onorario dell’Associazione non ha potuto intervenire al convegno perché ammalato».

 

Infine in un articolo da lui pubblicato su Il Gazzettino del 16 ottobre 1964, recensendo il volume dell’amico Pierantonio Quarantotti Gambini Luce di Trieste, edito dalla ERI, Valeri tornava ad esprimere, pur con qualche variazione, l’essenza del suo amore per Trieste, come l’aveva fervidamente espressa nel “pezzo” del 1952. Infatti osserva: «Nessun dubbio: Trieste è proprio così [cioè con una bellezza di orizzonti e di aria, ndr]. E così essendo, non vuol essere guardata con l’occhio del costruttore o ordinatore o regolatore di città, bensì con quelli del poeta. […] con il sole e la nuvola nera; il profondo sereno e il balenare della tempesta. A ogni angolo di via, un colpo di vento che ti spazza via dal cervello le comode certezze; gli occhi di una ragazza che ti bucano dentro; l’apparizione, giù in fondo, di un breve e immenso bagliore di mare».

 

Forse in quella mattina di primavera, diventata tersa, sussurrò a memoria le parole scritte una decina di anni prima e si riscosse. Il vento gli aveva per un po’ accarezzato i capelli. Ma aveva trovato i versi per fissare definitivamente la sua idea di Trieste. E li trascrisse con “dimessa eleganza” sulla pagina bianca:

 

«Saba, Stuparich, Giotti

e l’Anita Pittoni (e la sua gatta).

E la bora furiosa per le strade,

e il mare in piazza.

E le splendide mule, a schiera, in danza,

su e giù per il Corso …

 

Trieste è stata una calda stagione

della mia vita. Sul fumoso orizzonte

della memoria

ancora manda lampi».

 

 

Diego Valeri