Duo Hornung Schuch

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In un concerto proposto da Chamber Music due interpreti tedeschi eseguono musiche di tre musicisti russi

di Luigi Cataldi

 

Il pubblico che ha riempito gran parte del teatro Miela di Trieste il 22 marzo scorso, ha potuto ascoltare, per la rassegna “Cromatismi 2.0” di Chamber Music, un notevole concerto del duo tedesco composto da Maximilan Hornung (violoncello) ed Herbert Schuch (pianoforte). Insieme hanno eseguito musica di Rachmaninov, Prokov’ev e Shostakovich, tornati in URSS gli ultimi due dopo la rivoluzione, emigrato negli Usa il primo. Attorno alla rivoluzione, infatti, sia politica (quella bolscevica) che musicale (la dissoluzione delle forme e dell’armonia tradizionale, una sorta di non detto, anzi di non udito) si situano le musiche eseguite.

La prima, i Due pezzi, Prélude et Danse orientale, op. 2, composti nel 1892 da un Rachmaninov diciannovenne, neodiplomato al conservatorio di Mosca, ha subito messo in luce le principali qualità del duo: l’accordo fra gli strumenti e la capacità di ascolto reciproco; l’accompagnamento discreto e puntuale del piano, il suono caldo (specie nel registro basso) e la naturalezza lirica del violoncello. Riducendo a meno dell’essenziale le carriere degli esecutori, di Schuch è importante ricordare che, pur essendo nato a Timisoara in Romania, si è formato al Mozarteum di Salisburgo (Brendel la sua guida più importante), che ha intensa attività concertistica solistica e cameristica (degno di nota il duo a quattro mani con la moglie Gülru Ensari), che ha inciso 13 dischi con repertorio da Bach a Messiaen, che è volontario della “Rhapsody in School”, un’associazione in cui artisti affermati portano la musica (ritenendola essenziale per la formazione di ogni individuo) nelle scuole. Di Hornung, nato ad Augusta, non possono essere trascurati i maestri, Eldar Issakadze, georgiano di Tbilisi, Thomas Grossembacher di Zurigo e David Geringas, lituano di Vilnius (allievo di Rostropovich a Mosca), che hanno certamente contribuito alla sua apertura verso il repertorio anche poco noto dell’Est. Fra le sue 17 incisioni vi sono, infatti, i raramente eseguiti cello-concerti dei georgiani Sulkov Tzintzadze e Vaja Azarashvili e da Est spesso viene la musica dei suoi apprezzatissimi concerti dal vivo. In lui Anne-Sophie Mutter, che lo ha scoperto fin da giovane e con lui ha spesso suonato, dice di vedere la personalità, non appariscente, di un vero musicista, cioè «qualcosa di più di chi sa suonare solo presto e bene».

Per parlare della parte post-rivoluzionaria del concerto non si può ignorare il complesso rapporto fra artista e potere nell’epoca staliniana. Sia Prokof’ev che Shostakovich, a causa della loro adesione al socialismo e al tentativo di concorrere con i propri strumenti, all’edificazione della società socialista, sono stati accusati di essersi adeguati alle direttive di partito e di avere così insterilito la propria vena artistica. Accuse infondate, ma mosse anche alle due sonate eseguite al Miela.

Prokof’ev compose la Sonata op. 119 nel 1949. Dopo aver vissuto e operato in Europa e negli Stati Uniti, era tornato in Unione Sovietica definitivamente nel 1932 ed aveva lavorato incessantemente fra successi, riconoscimenti ufficiali (vinse per sei volte il Premio Stalin) e sospetti. Il 10 febbraio 1948 il Comitato Centrale del PCUS lo accusò (insieme ad altri musicisti fra cui Shostakovich) di “formalismo decadente”: una scomunica. Eppure, questa sonata mostra che egli non fu un musicista domato. In essa compaiono nel primo tempo (Andante grave – Moderato animato) materiali sonori diversi (un’aggraziata melodia da Belle Époque, un dinamico motivo barbaro, un altro meditabondo e salmodiante), che confliggono fra loro e, mutati all’ascolto dal loro stesso reciproco rapporto e a causa delle diverse soluzioni timbriche utilizzate (fraseggio spiegato, ribattuti e accordi oscuri del piano, timbri cupi e gravi, aerei armonici, pizzicati, vorticosi arpeggi del violoncello), costituiscono una sorta di «cubismo musicale». Compare la tipica cruda ironia ad animare il tutt’altro che tradizionale Scherzo/Trio, la cui melodia ricorda la sgraziata gestualità del Petruška di Stravinskij, mentre l’Allegro finale conferisce un carattere unitario all’intera composizione: presenta materiali contrastanti, paragonabili a quelli dei movimenti precedenti che, con improvvisi cambi di tonalità, ricorrendo a timbri diversissimi e a virtuosismi estremi del violoncello, si alternano in una sorta di libera rapsodia, fino alla coda, quasi orchestrale, con piena massa sonora e una dilatazione dei tempi che ricorda il finale dei Quadri di un’esposizione di Musorgskij.

Tutto fuorché esempio di omologazione è pure la Sonata per violoncello e piano op. 40 di Shostakovich, eseguita per la prima volta dall’autore, insieme a Viktor Kubatskij a cui è dedicata, il 25 dicembre del 1934, nello stesso anno, cioè, in cui fu composta l’opera Lady Macbeth del distretto di Mtsensk. L’opera, pur reduce da due anni di successi anche popolari, venne stroncata in un articolo apparso sulla Pravda il 28 gennaio 1936. «C’è il caos “sinistroide” e non una musica naturale. Per creare una forzata originalità si è sacrificata la capacità [riconosciuta all’autore e dunque indicata come aggravante nell’articolo] di scrivere una buona musica, che saprebbe trasportare le masse, in favore di un formalismo laborioso e piccolo-borghese». È col pensiero rivolto a questa stroncatura che la critica musicale vide un esempio di cedimento al regime anche in questa sonata per violoncello, la quale invece (a prescindere dal fatto che è opera precedente la scomunica) è coerente esempio di riflessione e rivisitazione delle forme classiche. Il compositore le considerava conseguenza di un atteggiamento più rivoluzionario che acquiescente: «L’arte dei classici è sempre stata in irrequieta ricerca. Essi hanno aperto nuovi orizzonti, hanno combattuto la routine e il filisteismo, hanno affrontato i problemi più brucianti del loro tempo, creando nuovi mezzi di espressione artistica», scrisse nel 1956 sulla Pravda. Frutto di irrequietudine e di vivo confronto con i problemi del proprio tempo è anche la Sonata op. 40. All’interno di una struttura quadripartita tradizionale (primo tempo di sonata, scherzo, tempo lento, rondò) si avvertono le sotterranee tensioni della musica contemporanea, eco delle rivoluzioni del linguaggio (e della società): libertà e ambiguità armonica fino all’atonalità, audaci registri strumentali (bassi profondi, glissandi del violoncello, staccati, sordini), procedimenti compositivi attualissimi (contrappunti di gusto bartokiano, elaborazione barbara, non post-wagneriana) applicati a materiali diversi, di gusto antico, popolari e attuali. Si tratta di procedimenti che accentuano la consistenza e la complessità della materia sonora. Uno sguardo modernissimo sulle forme della tradizione, insomma.

La coesione perfetta del suono e un approccio ponderato e non appariscente al testo sono risultati evidenti anche in questa parte del concerto. Merito della flessibilità di Schuch e, ovviamente, dell’interpretazione coerente e sicura di Hornung: nessuna ostentazione di virtuosismo (anche i passi più complicati, come quelli presenti nell’ultimo movimento della sonata di Prokov’ev, sono stati eseguiti con naturalezza), suono morbido, voluminoso e rotondo, specie nel registro grave, cantabilità spigliata nelle parti liriche sono le sue principali virtù. Hornung e Schuch hanno sottolineato nell’Op. 119 di Prokov’ev la varietà timbrica (in particolare nell’ultimo movimento) e gli aspetti spiazzanti derivanti dalla giustapposizione di tonalità differenti, mentre nella nell’Op. 40 di Shostakovich la varietà dei toni (dalla vivacità ritmica della parte centrale del primo tempo, al meditabondo ed estenuato lirismo del Largo). Applausi meritatissimi dal pubblico.

 

1.

Maximilian Hornung

ed Herbert Schuch