L’arte di essere fragili

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Alessandro D’Avenia racconta come Leopardi può salvarti la vita

di Graziella Atzori

 

La copertina del libro rappresenta il cielo stellato; al centro la luna crescente è agganciata a un filo che fugge fuori dalla pagina verso l’infinito. È un’immagine efficace per introdurre il lettore alla scoperta di un testo scritto con intenti pedagogici dal professore e romanziere Alessandro D’Avenia, devoto cultore di Leopardi, di cui compone un ritratto fuori dagli schemi consolidati. Nel suo L’arte di essere fragili, con sottotitolo come Leopardi può salvarti la vita (Mondadori, p. 209, 2016), l’autore vuole liberare il grande poeta da giudizi restrittivi, che lo collocano nell’ambito del pensiero rigidamente pessimista, pessimismo individuale, storico e in fine cosmico.

Leopardi stesso aveva sempre aborrito il titolo di misantropo attribuitogli dai contemporanei. D’Avenia, secondo il suggerimento di Proust, desidera produrre “incitamenti”, pensieri e azioni nate da un “rapimento”. Rapiti dalla bellezza potremo anche noi riuscire a trasformare il destino in destinazione, assaporare la felicità.

Parola inusuale quest’ultima, accostata al recanatese cantore della natura “matrigna” e della “vanità del tutto”. Eppure Leopardi è poeta del paradosso, è negazione della negazione. Ben l’aveva compreso De Sanctis, trovando nei suoi versi la bellezza capace di contraddire la delusione, sopraggiunta dopo la caduta delle grandi speranze, mai completamente sostituite con  “l’arido vero”. Afferma D’Avenia che il significato di un’opera d’arte non sta nel testo esplicito o non solo, ma è innanzi tutto nella forma. Lo stile di Giacomo è esteticamente seduttivo e muove la volontà. Se il mondo è sopportabile per il suo valore estetico (ricordo Nietzsche), in Leopardi esso, oltre che bello, è il luogo per esercitare la compassione e la solidarietà, similmente al credo di Buddha o di Cristo.

Possiamo leggere pagine mirabili nello Zibaldone sulla necessità di preservare le illusioni: «E la ragione facendo naturalmente amici dell’utile proprio, e togliendo le illusioni che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società, e inferocisce le persone». (Zibaldone, 1818). A vent’anni il poeta individua il pericolo della soppressione degli ideali. Pochi anni più tardi nel suo diario, così ricco di illuminazioni, scriverà una frase programmatica metaforica, incantevole come un verso: «Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella». (Zibaldone, 1° ottobre 1820). È lì che ci esorta a vivere. Nel cielo quindi, così amato e studiato già a quindici anni, quando il ragazzo prodigio (aveva appreso da autodidatta lingue quali sanscrito, ebraico e yddish, oltre a greco, inglese, francese e tedesco) si era cimentato con un saggio sulla storia dell’astronomia. Le stelle simboli di utopia sono protagoniste dei suoi canti e spettatrici delle vicende umane. Non lo lasceranno mai solo, fino all’ultima notte della sua esistenza terrena. È un paesaggio celeste e alto mai di contorno, respiro del suo stesso respiro, unione totale in cui è dolce sprofondare, perdersi e sentirsi vivo, fuso nelle stagioni eterne, scrive ne L’infinito nel 1819, duecento anni fa, con versi incancellabili e credo insuperabili.

In una lettera all’amico Pietro Giordani, datata 24 luglio 1828, chiederà: «Umilmente domando se la felicità dei popoli si può dare senza la felicità degli individui». Domanda attualissima nel nostro tempo in cui l’individuo è annullato da condizionamenti massificanti che hanno l’effetto di pallottole nella mente sperduta, priva di direzione, senso, verità. Domanda retorica del Nostro, poiché ne conosceva la risposta molto bene; aveva scritto anni addietro: «La felicità non è che compimento». (Zibaldone, 31 ottobre 1823). D’Avenia sottolinea ripetutamente nelle sue pagine il leitmotiv dell’assunto fondamentale: essere compiuti non significa essere perfetti secondo criteri standardizzati; è possedere una vocazione, tentare di compierla, pur nella fragilità dell’essere, anche con il sostegno del nulla e per compagna la morte. E il biografo chiede a noi lettori: «vivere per morire o morire per vivere?» Morire, secondo Leopardi,  alla supponenza di un secolo innamorato delle «magnifiche sorti e progressive» (da La Ginestra), del perfezionismo delle prestazioni, ormai oggi arrivate alla robotizzazione della nostra vita.

Egli aveva rischiato tutto se stesso verso il compimento, nel tragico 1819, nel tentativo di fuga – fallito – da Recanati. Scrive al padre conte Monaldo di preferire la povertà alla sicurezza dell’asfittica casa paterna e avrebbe chiesto l’elemosina piuttoso che restare  in un ambiente coatto. Scoperto prima di realizzare il progetto, privo di passaporto e prigioniero, vive una stagione di isolamento e sconforto, aggravato da una oftalmia che non gli permette di leggere. L’esperienza della noia come condizione esistenziale senza via d’uscita fa da contrappunto alla libertà assoluta e al viaggio cosmico sperimentato nello stesso anno, come sappiamo dal primo idilio. Seguirà la riflessione filosofica delle Operette Morali che precedono i Grandi Idilli.

Solitudine, povertà, malattia, speranza d’amore negato; critici malevoli e amici e amiche capaci di osservazioni impietose sul suo aspetto, compiute dietro le spalle; vita raminga da straniero; calzini troppo spesso rammendati, giacche eleganti rivoltate, collette di amici pietosi per sopravvivere; salute sempre cagionevole, due gobbe, un misero assegno paterno elargito dai genitori dopo ripetute timide richieste: il percorso esteriore di Leopardi in una Italia retrograda e clericale lo conosciamo. Percorso condito di amarezza e rimpianto, denso di figure perdenti di fragilità meravigliosa: Silvia e Nerina, passeri solitari che straziano il cuore, e garzoncelli e donzellette che perennemente lo riscaldano. Ma forse non conosciamo la consapevolezza della sua alta missione, che lo sorreggeva. Sapeva che la poesia è dono al mondo; sapeva di avere creato «non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui». (Zibaldone, 1828). Il bello cura «l’infinito ferito», felice espressione di D’Avenia.

Leopardi insiste sulla necessità di cercare l’immortalità, tema centrale insopprimibile del dialogo tra la Moda e la Morte appaiate, di cui la prima è rappresentazione dell’effimero e sorella della seconda (Operette Morali).

Verranno per lui a Napoli, negli ultimi quattro anni della breve odissea terrena, la pace e la gioia dell’amicizia con Antonio Ranieri e la sorella Paolina; amicizia preludio della  solidarietà umana cantata ne La Ginestra, «social catena» che ci lega. La ginestra è un fiore fragile, gentile e «lento», fiorisce faticosamente accanto al terribile vulcano, nel deserto arido, per consolare con il suo profumo. Questo profumo, oso dire, è l’eternità che travalica le stagioni e il tempo. La ginestra non ha illusioni di durata, pure fiorisce. Permane in noi, costante, da rievocare nel nostro deserto interiore nei momenti di cattività, abbandono, tradimento, povertà, malattia. Leopardi conosceva tutto ciò, resistendo e cantando sempre.

Così, D’Avenia lo addita quale maestro e guida agli adolescenti impauriti, ai più colpiti, a chi ha genitori che si odiano, agli autolesionisti capaci di ferirsi le braccia, ai disperati per un amore finito, ai respinti, ai più poveri, agli aspiranti suicidi. Chi muore poetando fino alla fine, schiacciato dal suo corpo storto che pesa sui polmoni e sul suo cuore ma lascia in eredità un fiore perenne, può salvare.

Ciò che salva è la parola, non mero ornamento, ma intesa come incarnazione dell’idea e testimonianza del mondo al mondo, autocoscienza, azione creativa, risposta etica dell’esserci, non statica e passiva contemplazione, soprattutto non vittimismo. Tanto il poeta filosofo comprende fin da giovane, e annota: «Trovata la parola […] la nostra idea ne prende chiarezza e stabilità e consistenza e ci rimane ben definita e fissa nella mente, […] colla parola prende corpo, e quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta.» (Zibaldone, 1819-1820). Ma stabilita la ragione, la parola non può restare rappresentazione asettica: «Non bisogna estinguere la passione colla ragione, ma convertire la ragione in passione». (Zibaldone, 23 ottobre 1820).

Tale movimento dialettico è la stessa pulsione insita nella natura, nella quale Leopardi avverte l’impulso affine alle concezioni ilozoiste dei filosofi presocratici, ripresi nello “slancio vitale” di Bergson, di cui il Nostro è anticipatore. Infatti: «La natura purissima, tal qual è, tal quale la vedevano gli antichi: le circostanze, naturali, non procurate mica a bella posta, ma venute spontaneamente: quell’albero, quell’uccello, quel canto, […] tutto da per sé, senz’artifizio, […] insomma la natura da per sé e per propria forza insita in lei» (Zibaldone 1818). Sebbene la natura non abbia come scopo la nostra felicità, come il poeta afferma nel Dialogo della Natura e di un islandese, essa ne è la fonte.

Nel nostro sviluppo di crescita basata sul dominio del più forte, abbiamo inqinato, sconvolto l’equilibrio naturale e ipotecato il futuro. L’ironia della sorte vede contrapposto un “pessimista” rispettoso delle forze vitali, contro l'”ottimismo” cieco del  progresso a oltranza. Con le luci artificiali non è quasi più possibile ammirare le stelle, necessità per l’armonia tra mente e cuore. Quella casa nel cielo, se risognata, ci fermerà e salverà.

Alla fine dell’esistenza Leopardi non aveva spento il suo sorriso. Lo testimonia De Sanctis, abbagliato dalla luce mite di quel volto, quando fu invitato dal poeta a parlare nell’aula tra i suoi compagni di studio. Sorriso strepitoso se confrontato con la povertà di quel corpo. Anche noi ne siamo rapiti e in ciò sta la signoria di Leopardi sul destino. Il corpo non mente.