Scrittura d’alta quota

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Con Gli eroi invisibili dell’Everest, Dušan Jelinčič racconta ancora storie di uomini a 8.000 metri

di Roberto Dedenaro

 

Cos’è la letteratura di montagna? Ne so poco, lo confesso, ne ho letto poco, in parte per il semplice fatto che, da un punto di vista tecnico, banalmente non sono mai stato un vero alpinista e perciò la descrizione di vie ed ascensioni non ha mai attratto la mia attenzione. Però c’è qualcosa che ha destato, al contrario la mia curiosità e che mi ha trascinato a leggere le pagine di Gli eroi invisibili dell’Everest di Dušan Jelinčič scrittore e alpinista, con diffidenza, all’inizio, interesse poi.

Quella cosa che possiamo chiamare letteratura di montagna, con tutti i distinguo del caso e i limiti che una definizione finisce sempre per avere, ha degli antenati, antenati nobili, uno dei quali lo conosco bene, per motivi banalmente professionali, ed è l’Ascesa al monte ventoso di Francesco Petrarca, una delle lettere contenute nel gruppo delle Familiares. In realtà lo scritto si intitola esattamente così: A Dionigi da San Sepolcro dell’ordine di Sant’Agostino e professore della Sacra Pagina. Sui propri affanni, e descrive, come è noto, l’ascesa al mont Vantoux, una cima sacra per i ciclisti, da parte di Francesco e del fratello Gherardo che dovrebbe essere avvenuta nel 1336, esattamente tra il 24 e il 25 aprile. Qua cerco di farla finita con il mio fare il professorino, ma quello che sto cercando di dire è che fino dai suoi esordi la salita ad un monte ha rappresentato un’ottima occasione per parlare di sé, dei propri affanni e di quelli, più in generale, della propria cultura, del proprio modo di vivere. Era il confronto con l’altro che la montagna offriva (attenzione al verbo al passato, si potrebbe discutere), la diversità era identificabile con l’ambiente, selvaggio e inospitale, sicuramente diverso da quello da cui provenivano la quasi totalità degli scalatori, ma anche con gli abitanti del luogo, con i cibi con l’abbigliamento e alla fine la diversità con cui si doveva mettersi in rapporto era quella del proprio io che decideva di sfidare i suoi stessi limiti in un’attività del tutto inutile, come lo è raggiungere la cima di un monte, piccolo o grande esso sia, ma a cui si sentiva di dover dedicare tutto il proprio impegno. è insomma il prototipo del viaggio etnografico o antropologico sia esso all’interno o all’esterno della propria cultura, un viaggio fondamentale, tanto più per la generazione di alpinisti degli anni ottanta -novanta cui Jelinčič appartiene. Aggiungo la grande tradizione triestina nell’alpinismo italiano: per buttare là solo due nomi, Spiro della porta Xidias e Tony Klingendrath, che in Himalaya ha rischiato seriamente di morire e che ha scritto un bel libro sulla sua esperienza di alpinista, Cane sciolto, che, forse perché al suo interno si parla anche di persone a me care, mi è sempre sembrato un ottimo esempio della montagna come, diciamo così sbrigativamente, esame di coscienza, ma gli esempi potrebbero essere veramente infiniti, Messner compreso, che di tutto ciò è stato per alcuni anni la versione più di massa e più conosciuta al grande pubblico. Allora se di queste discussioni e di tante analisi e proposte sull’ubi consistam dell’alpinismo, se fosse corretto o meno l’uso di una certa apparecchiatura tecnica o meno, quale parte di occidente, in senso metaforico, fosse corretto o meno portare con sé lungo la salita, non cosa oggi rimanga. La salita ad un ottomila non fa più, o quasi notizia, la tecnica ha messo a disposizione materiali ed oggetti sempre migliori e leggeri e l’alpinismo ha perso, ovviamente, in gran parte il fascino della scoperta rientrando più nella categoria della ripetizione, più della pratica sportiva e meno del confronto con il proprio io, i propri limiti o almeno con la pretesa di farlo, tanto che di arrampicata ora si fanno gare in palestre, su pareti artificiali. Ai tempi della mia università, peraltro, girava, forse gira ancora, una battuta che diceva più o meno così: chi è scontento di se stesso studia psicologia, chi lo è della società, studia sociologia, chi lo è di sé e della società, studia antropologia.

Torniamo adesso Agli eroi invisibili dell’Everest, che è la traduzione di un romanzo uscito per la prima volta in lingua slovena nel 1998, con un titolo abbastanza diverso, Budovo Okno, L’occhio di Budda, come se a distanza di vent’anni si cercasse di attenuare l’idea di un certo esotismo misticheggiante del primo titolo. Il libro di Jelinčič è, così almeno mi pare, un libro di fantasmi: lo sono i due protagonisti Mark e Paul, fantasmi d’alpinisti che cercano di essere alpinisti veri ancora, lo sono gli sherpa e il monaco lama Deva, che appare e scompare e sa esattamente cosa è successo e cosa succederà, ma lo è soprattutto la montagna, il Sagarmatha, che gli occidentali si ostinano a chiamare Everest, che è la casa degli dei dove ognuno incontra se stesso e sale sulla cima che è in sé, non certo una vera cima di rocce e neve. D’altronde il racconto, diviso in due capitoli, o parti, il cui titolo porta la parola occidente in alto a sinistra e oriente in basso a destra, poi invertite nel titolo della seconda parte che è chiamata Fuga nella conoscenza. Da questo confronto l’occidente ne viene fuori con le ossa rotte, i suoi alpinisti saranno pure attrezzati perfettamente, ma sono come bambini vanagloriosi e sciocchi, gli sherpa come genitori premurosi perdonano la gioventù l’insensata arroganza ai giovani scalatori. I due protagonisti Mark e Paul, come abbiamo detto precedentemente, quarantenni quasi a riposo che rimpiangono il Nepal degli anni passati portano su di sé il peso della sconfitta: i signori degli ottomila se esistono sono e rimarranno gli altri, ben più rispettosi degli dei e della loro lingua.

Il libro, dunque, profuma di anni novanta di discussioni e atteggiamenti che forse anche il mondo alpinistico oggi conosce meno, ma questo mi è sembrato il su maggior pregio, perché non è detto che non ci sia più nulla da capire e soprattutto da pensare solo perché siamo, noi occidente, ancora più ricchi e più sazi di prima.

Scritto con una prosa sicura, data al testo dalla traduzione al solito magistrale di Daria Betocchi, Gli eroi invisibili dell’Everest, va assaporato come un bicchiere di vino invecchiato al punto giusto: ci farà alzare gli occhi verso l’alto.

 

 

Dušan Jelinčič

Gli eroi invisibili dell’Everest

Bottega errante, 2020

  1. 160, euro 15,00