Da migrante a viaggiatore

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Da Camin, sobborgo di Padova, al resto del mondo, la storia di un emigrante divenuto un grande viaggiatore

di Rossana Melis

Subito, appena sfogliate poche pagine di questo ricco ed elegante volume, che pubblica diari, ricordi, lettere, foto dei viaggi che, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, un giovane veneto ha compiuto nel mondo partendo da Camin, un borgo della periferia padovana, mi è venuta in mente una frase di Ernesto De Martino che molti anni fa avevo trascritto in un post-it giallo, e appiccicato al dorso di una libreria, dove ancora sta: «Solo chi ha un villaggio nella memoria potrà essere cosmopolita, chi non ce l’ha sarà, semplicemente, un apolide». Perché le poche case che ancora nel secondo dopoguerra costituivano la frazione di Camin sono l’altro polo, vistoso, sempre presente e pulsante, del racconto.

Camin, ricorda nella prefazione il geografo Francesco Vallerani, negli anni Trenta del secolo scorso era un modesto villaggio di crocevia, nel mezzo di un panorama ricco di acque, tra il canale di San Gregorio e il Naviglio, che partecipava quindi degli itinerari commerciali tra Venezia e l’entroterra. In questo orizzonte liquido e aperto, segnato anche dai binari della ferrovia che veniva da Bologna, crescerà il giovane Armando (Albino per i suoi), primogenito di sette fratelli di una famiglia di contadini-operai e artigiani. Una famiglia unita, che sempre tutta seguirà, da Camin, i viaggi del figlio e fratello emigrante. E questo è l’altro incanto, per me, del libro: il coinvolgimento, la passione con cui quelli rimasti a casa seguono gli itinerari di Albino, con l’atlante aperto sul tavolo di cucina. Gli scriverà per esempio da Camin il fratello Luciano nel ’61, in un momento del viaggio avventuroso tra l’Asia e l’Europa: «atlante alla mano ho appena finito di seguire il percorso della transiberiana attraverso Manciuria, Mongolia, Siberia e Russia. Attorno alla tavola gli occhi luccicano, mentre parliamo del tuo itinerario o rileggiamo i tuoi commentari». E proprio al più giovane fratello Luciano, il letterato di casa, competerà, alla fine, di raccogliere e mettere ordine nei diari, tra quaderni e fogli volanti, scegliendo tra le foto e le centinaia di lettere, aiutando insomma Albino (come spiega nella premessa) a costruire, in sequenza, la storia della sua vita.

L’incanto del viaggiatore (che si apre non a caso con l’epigrafe che riproduce i versi finali di I Mari del Sud di Pavese) parte appunto dal racconto, scritto in prima persona, dell’infanzia e dell’educazione di Albino. Nato nel ’33, in pieno regime fascista, impara quindi a leggere sui libri «che esaltavano il lavoro nei campi e la conquista dell’impero in Africa». Finite le elementari inizia, come tutti i suoi compagni, a avvicinarsi a un mestiere, diventa apprendista falegname. Cambia ogni tanto padrone, nel suo lavoro diventa abile. Intanto la lettura, una consuetudine in casa Morbiato, lo attira sempre di più verso la carta stampata e le sue storie, quella dei libri vecchi che trova dai padroni in quei primi anni, o di quelli che stanno nei locali del Patronato, il luogo di ritrovo della chiesa vicino a casa che frequentano tutti i ragazzini del borgo. Qui Albino conosce per la prima volta, oltre le pagine del «Vittorioso», Salgari, Verne, e poi, di nascosto dal cappellano, Dumas, e, con gli amici, legge i fascicoli a puntate dei Miserabili di Hugo. Sempre attraverso le iniziative della parrocchia, arriva alle avventure del cinema domenicale, che, insieme alle gite in montagna, alle volate in bicicletta, allargano concretamente i confini del suo mondo.

Finché avviene per il giovanissimo apprendista, quando accompagna il padrone in una sontuosa villa della Riviera del Brenta, villa Giovanelli, un incontro numinoso, anzi un riconoscimento, in cui poi riconoscerà anche il suo destino. Nel centro di una sala piena di libri antichi, un leggio, e sopra il leggio un libro aperto, su un disegno. Albino, che già si è lungamente appassionato all’Atlante De Agostini posseduto da un suo amico, riconosce in quel foglio la rappresentazione di un territorio, la parte orientale dell’America del Nord: «io rimasi solo, davanti a quella superficie un po’ ruvida, su cui si stendeva il paese immenso, con segni che mostravano le foreste e linee sinuose per le vene dei fiumi, senza strade e ferrovie, con cerchietti a designare le località dai nomi che parevano di fantasia, ma corrispondevano agli stanziamenti delle nazioni e tribù indiane o agli insediamenti militari che le fronteggiavano. L’incanto mi portò le mani tremanti alla bocca che voleva urlare […]». E l’emozione di quel riconoscimento, “l’incanto”, sarà per sempre la cifra che lo spingerà a volerlo di nuovo provare, e riconoscere, nei lontani paesi reali, i segni che aveva già conosciuto in quella carta geografica, un foglio dell’Atlante di Antonio Zatta, inciso a Venezia nel 1778 (come poi avrebbe imparato). Da questo momento gli sembra che tutto, anche l’iniziazione al nuoto che avverrà d’estate nel canale vicino a casa, lo porterà al viaggio: «sentivo che anche l’acqua del Piòvego parlava la stessa lingua di quei fiumi lontani che si aprivano la strada negli spazi bianchi e desolati della carta di una terra lontana, dove avrei voluto arrivare, dove sarei arrivato, dopo aver lasciato la bottega sotto l’argine».

Ma intanto la vita reale incalza, la casa diventa sempre più affollata. Nel 1952, un anno prima che Albino vada soldato, in famiglia sono ormai in nove: tanti, e poveri, ma uniti da un affetto fortissimo. Grazie anche ai fascicoli della Nuova Enciclopedia Sonzogno, che compera all’edicola di Ponte di Brenta, e apre sul tavolo della cucina, attorniato dai fratelli e dalle sorelle, e poi all’abbonamento all’autorevole Universo, Albino alimenta sempre più la sua passione. Quando, a vent’anni, parte soldato, e viene mandato al campo estivo di Cecina, vicino a Livorno, quel litorale desolato gli sembra a suo modo affascinante, perché evoca in lui «le poche memorie carducciane e insieme il sogno dei Mari del Sud». Sarà proprio durante il lungo periodo militare che Albino «preso com’ero»– ricorda – «tra il fondo nazionalista depositato negli anni d’infanzia e la voglia di mondo che mi agitava», matura la decisione di andare a lavorare il più lontano possibile, in Australia, e qui far fruttare le sue abilità e le forze della sua giovinezza, cambiando il suo destino.

Una serie di appunti giornalieri, un breve diario, dal 3 al 25 luglio 1957, ricco di nomi di luoghi e di particolari della vita quotidiana, interrompe il racconto e documenta la sua partenza da Genova, con altre centinaia di emigranti, il 4 luglio del 1957. Viaggia sulla nave “Aurelia” che, dopo un mese di navigazione, lo porta a Melbourne. Rimasto pochi giorni nel centro di raccolta per emigranti, un amico, originario delle sue parti, nell’agosto lo chiama a Sydney, dove Albino rimane un anno come falegname, frequentando subito corsi serali di inglese, facendo amicizie. Ma il desiderio di guadagnare di più e mandare più soldi a casa lo spinge ad andare a lavorare nelle montagne di Island Bend. Perché tutti i mesi Albino manda a Camin tutto quello che può risparmiare. E indispensabili per chi legge le sue avventure sono le numerosissime lettere familiari, messe in appendice al volume, preziose per cogliere lo spessore del fitto dialogo con la famiglia, le voci diverse, ma sempre a modo loro presenti e incoraggianti. Sempre datate, danno modo di conoscere la necessità di Albino di sapere sempre tutto di Camin, attraverso anche giornali, e gli echi, che gli giungono da lontano e sente anche intorno a sé, di un’Italia dei primi anni Sessanta che sta cambiando velocemente. I suoi intanto possono comprare, con quei soldi, anche una terra, e via via, col tempo, costruire una casa. Quando finalmente abbandona quelle montagne australiane (dopo aver scambiato con i compagni, come segno di amicizia, gli strumenti di lavoro), tutto proteso al lunghissimo viaggio di ritorno, accenna solo con poche parole, da Sydney, nel giugno del ’61, ai familiari: «i quattro anni di duro lavoro che ho trascorsi sono ormai lontani, è un capitolo che si è chiuso, e mi è già difficile rendermi conto che solo due settimane fa ero a Island Bend, in quelle montagne che hanno preso quattro dei miei anni migliori».

Qui riprende il diario, dove annota, dal giugno all’ottobre 1961, le tappe e le avventure del lungo e felice ritorno, durato più di quattro mesi, viaggiando verso est. Prima sulla bella nave Sinabang, fino a Singapore, poi su altre navi, con l’arrivo in Giappone, il viaggio in treno attraverso la Siberia, affascinato come sempre «soprattutto nel passaggio dalla visione dei segni sulla carta alla sensazione dell’immersione nella realtà». E poi in aereo verso Mosca, quindi in treno verso Varsavia, Vienna, e finalmente Venezia, Padova.

Ho sintetizzato finora solo un terzo delle pagine del racconto dell’irrequieto Albino. Che, tornato alla monotona vita di Camin, non può che ripartirne, spinto anche dai bisogni materiali della famiglia. E va l’anno successivo in Germania, sempre come falegname, e poi in Svizzera. Qui, a Zurigo, gli succede qualcosa che finora ha accuratamente evitato, preferendo la libertà: si innamora. Nel libro dedica poche parole a questo innamoramento. Ma quando succede ci ragiona su, vede le tante difficoltà di una vita in comune e prende la decisione, la più «straziante» della sua vita, di chiudere con la ragazza zurighese. Decide allora di allontanarsi, tornare a Camin. Soprattutto per alleviare quello strazio, qualche mese dopo, nel dicembre del ’64, organizza con il fratello Francesco un viaggio quasi impossibile: andare, con una Seicento, fino in Sudafrica. Anche in questo caso il racconto è interrotto da un diario, scritto in buona parte dal fratello, in cui, con ricchezza di nomi e di episodi, delinea le tappe del nuovo itinerario: da Padova verso Trieste, Zagabria, Belgrado, poi Sofia, Istanbul, Ankara, l’altopiano dell’Anatolia, poi Damasco, infine Beirut, sulla bella nave “Ausonia” fino a Alessandria, poi Il Cairo, dove sostano per alcuni giorni e ottengono i visti per il Kenya e l’Etiopia. Arrivati a Port Said (e è già gennaio del ’65) si imbarcano con la Seicento per Gibuti, da qui in treno arrivano in Etiopia, poi in Kenya e, il 24 gennaio, a Nairobi (è Natale e all’ambasciata italiana li attendono lettere da Camin), poi a Lukasa, Zambia, Rhodesia, e finalmente sono nel Sudafrica, a Johannesburg. Il sessantaseiesimo giorno del viaggio, arrivano a Cape Town.

Albino riprende qui il filo del racconto: dopo qualche mese di lavoro in un sobborgo di Cape Town, si sposta nel centro diamantifero di Oranjemund. Tocca con mano cos’è il Sudafrica razzista, la povertà degli indigeni, le condizioni di miseria che aveva già osservato nel corso del viaggio. L’avventura sudafricana si conclude nel giugno del ’66, ma Albino va subito dopo in Inghilterra, a Londra. E di lì, attratto da un altro oceano, parte verso il Canada. A Toronto trova subito lavoro, rincontra un vecchio amico, insieme a lui decide, nell’aprile dell’anno successivo, di attraversare l’America, in autobus e in treno, in un viaggio che sarebbe durato due mesi, fino a Buenos Aires, per poi tornare in nave in Italia, sul bel “Giulio Cesare”. Quando arriva a Genova è il 15 giugno del 1967: sono passati dieci anni – quelli che aveva già a suo tempo deciso di concedersi – dalla sua prima partenza da Camin. Nel racconto degli anni successivi, quando Albino è ormai stanziale, e decide di sposarsi, poche pagine coprono ben 14 anni di vita: sono le pagine, asciutte e elegiache insieme, in cui ricorda gli anni di matrimonio con Emerenziana, una ragazza bella e fragile, colpita da una malattia polmonare che l’avrebbe fatta morire. Riandando alle cure per la sua malattia, Albino ricorda: «pensai […] che il viaggio, che per me era stato così importante, determinante, vitale, poteva essere anche per lei una terapia, un fonte di salvezza […]». Così, fino a quando è possibile, fa brevi viaggi con la moglie in Istria, a Parigi, nel Nordafrica. Ma la via di fuga, con la morte, non funziona.

Nelle pagine conclusive Albino sintetizza ancora di più le vicende della sua vita, fino ai giorni nostri. Riprende il filo da quando, negli anni Settanta, è ancora falegname, a Camin, ormai attivissima zona industriale di Padova (racconto interrotto da un altro breve diario del suo ritorno, negli anni Novanta, in Canada, nei luoghi in cui ha lavorato, e che non riconosce più). Nel frattempo ha continuato ad alimentare la sua passione per i libri, già cercati a suo tempo in qualsiasi posto si trovasse, per i francobolli, ma soprattutto per le carte geografiche antiche, che colleziona sempre. Un’occasione gli fa cambiare la vita e il lavoro: «si trattò – ricorda – di un piccolo catalogo di vendite per corrispondenza, dedicato alla cartografia, pubblicato da un antiquario veronese e inviato a un giovane filologo e bibliofilo caminese, Antonio Daniele, un amico di Luciano. Quel fascicolo mi convinse a prendere il treno per raggiungere poi a piedi il negozio nei pressi dell’Arena». (L’amico Antonio Daniele mi ricorda ora che vi andò proprio il giorno dopo, folgorato da quel catalogo). In seguito, attirato dai mercatini antiquari ambulanti, dove si trova a suo agio e vende bene, lascia finalmente il lavoro di fabbrica, diventa un collezionista, via via sempre più conosciuto e stimato, in Italia e all’estero.

Il nastro dei ricordi si ferma: Albino ora è nel suo studio, in compagnia dei suoi libri, delle amate carte, dei suoi gatti, pensa ai viaggi, alle donne che ha conosciuto, alla seconda moglie Daniela, al suo rapporto con lei. Gli interrogativi emergono quietamente dal tempo passato, insieme alle risposte.

Per me, finita la lettura, si disegna un itinerario esemplare in cui in parte mi riconosco, non solo per avere anch’io negli anni Sessanta amato quel Pavese sempre così presente nell’anima stessa del libro, ma perché conosco per esperienza quanto di irripetibile ci sia nei viaggi che ha compiuto Albino, ora che le distanze, lo spazio stesso, è stato cancellato dalla tecnologia. Ho avuto la ventura di percorrere, per due mesi, alcuni paesi dell’America del Sud tre anni dopo Albino, nel Settanta: ricordo la trepidazione per l’attesa delle lettere inviate dall’Italia in ambasciata, a Lima, a Santiago, a Montevideo, a Buenos Aires, l’emozione nell’aprire quelle che allora erano quasi l’unico legame con la casa, dove io avevo lasciato un bambino di tre anni. Era stato un viaggio di conoscenza, non certo di incanto. Qui si aprirebbero considerazioni sul persistere – anche se ora attenuate – di differenze tra il mondo maschile e quello femminile nel desiderio di viaggio. Sono state a suo tempo abbondantemente analizzate, e quindi qui nemmeno accennerò al tema del rapporto tra le donne e il viaggio, tra le donne e il villaggio.

Armando Morbiato

L’incanto del viaggiatore

Diari (1957-1967)

e ricordi di un emigrante

a cura di Luciano Morbiato

prefazione di Francesco Vallerani

Il Poligrafo, Padova 2020

pp.322, euro