Caterina va alla guerra

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Un romanzo di Adrienne Thomas

quando gli europei riuscirono finalmente a raccontare l’incubo che avevano vissuto

di Fulvio Senardi

 

Tra i grandi romanzi dimenticati della Grande guerra, apparsi sulla scena letteraria all’alba degli anni ’30 del Novecento, quando gli europei riuscirono finalmente a raccontare l’incubo che avevano vissuto, va sicuramente compreso Caterina va alla guerra (Die Katrin wird soldat) di Hertha Strauch, meglio nota sotto lo pseudonimo di Adrienne Thomas. Il romanzo, in gran parte autobiografico come si vedrà, venne tradotto in italiano dal goriziano Enrico Rocca, e apparve per i tipi di Mondadori nel 1931 (un anno dopo l’uscita berlinese e un anno prima della traduzione francese), senza essere più ristampato per l’evidente dissonanza con lo spirito della dittatura mussoliniana. Donna di frontiera, in senso nazionale, etnico e politico, coetanea di Erich Remarque (del 1897 lei, del 1898 lui), anche Hertha Strauch scelse come l’autore di Niente di nuovo sul fronte occidentale uno pseudonimo francese come a risarcire l’Europa, con un gesto d’amore verso il “nemico ereditario” della Germania, della colpa della guerra fratricida. Del tutto differenti invece gli ambienti in cui essi vissero gli anni fondamentali dell’infanzia: in Westfalia il cattolico Remarque, proveniente da un milieu operaio, l’ebrea e borghese Strauch invece in Lorena, confrontata da subito con i temi dell’esclusione e del conflitto: ebrea e tedesca in una terra cattolica e, entro certi limiti, di sentimento francese. Non quanto avrebbe voluto però, dopo la guerra, la mitizzazione irredentista delle terre perdute con la sconfitta di Napoleone III e riconquistate con la Grande guerra, l’Alsazia e la Lorena, che si erano invece bene integrate, assai meglio di quanto affermavano i nazionalisti francesi, nella vita opulenta del Reich tedesco (insomma, le ragazze di Metz non cantavano tutte con ardore, oh la Francia oh la Francia del mio cuore …). Cosa che spiega la relativa dimenticanza di cui ha sofferto e soffre in Francia Adrienne Thomas, di cui la città natale di Saint Avold ha riconosciuto solo in tempi recenti la statura, intitolando al suo nome, nel 2004, un premio letterario. La Caterina del libro è, con tutta evidenza e come ha pienamente riconosciuto la critica, lei stessa. Suo l’amore per la Lorena, l’unica vera Heimat (ma dove non scelse di vivere, stabilendosi a Vienna, la città del secondo marito, dopo il ritorno in Europa dall’esilio americano nel 1947, per morirvi nel 1980), suo il piacere del vagabondaggio linguistico tra il francese e il tedesco, secondo capriccio o necessità comunicativa, suo il senso di frustrazione per il rifiuto che avverte, in quanto ebrea ancorché di famiglia perfettamente integrata (e tanto laica da festeggiare il Natale insieme alle ricorrenze giudaiche), da parte di molte compagne della Höhere Mädchenschule di Metz, le “prussiane”. E suoi e autentici i ricordi dei primi anni di guerra che dal diario scivolano nel romanzo (che del diario mantiene la forma), garantendogli un sapore di freschezza e, in certi suoi risvolti, perfino di ingenuità infantile: il primo amore della bambina per un affascinante giovanotto conosciuto in una località di vacanze, in pagine che arieggiano Schnitzler (citato come una delle letture preferite) ma senza nulla di freudianamente morboso, a intrecciare una relazione che la motiva a coltivare il nascente talento di cantante; la passione di liceale romantica per un coetaneo, Lucien, che perderà la vita nel conflitto; infine, determinante, il tema della parte più ampia e coinvolgente del libro, l’impegno nella Croce Rossa alla stazione di Metz, a rifocillare i soldati avviati alla prima linea e a curare feriti e ad assistere prigionieri sui treni partiti dal fronte. Per tutti una parola dolce, nella lingua di ciascuno, un gesto materno e affettuoso. Testimone affranta del dolore della guerra, dopo una prima breve esaltazione patriottica che la spinge a mentire sull’età per poter vestire l’abito di crocerossina. In perfetta sintonia dunque con la disillusione dei soldati dell’esercito imperiale – la guerra non era stata quella breve passeggiata vittoriosa che qualcuno aveva immaginato – il cui slogan arrogante dei primi mesi: “Dio punisca l’Inghilterra!”, si era trasformato, quasi senza più odio, in una formula sarcastica, amara presa d’atto del destino comune: “arrivederci al cimitero!”. Sul contrappunto di un’infelice storia d’amore, quella con Lucien, è l’esperienza come crocerossina che prende sempre più piede, salvando il romanzo dal rischio di ridursi a un polpettone sentimentale (osserveremo per inciso che questa particolare prospettiva è anticipata da alcune pagine di Giù le armi – Die Waffen nieder, 1889, il romanzo di Bertha von Suttner che, a una rilettura odierna, appare un fecondo semenzaio dei temi più caratteristici della posteriore letteratura di guerra). La morte di Katrin Lentz, la Caterina del titolo, nel dicembre 1916 a 19 anni (Hertha lascerà invece nel 1916 insieme alla famiglia la Lorena per Berlino, per sottrarsi agli insistenti bombardamenti francesi), assume così il senso di una sorta di sacrificio volontario, un lasciarsi morire in cui la notizia della perdita dell’amato gioca un ruolo meramente sussidiario: Katrin soccombe all’incapacità di accettare la crudeltà della guerra, quell’indicibile “là fuori” (draussen) di cui i feriti o chi ritorna in linea non vuole o non sa parlare, ma la cui mostruosità si condensa in una sola frase: orribile oltre ogni attesa (über Erwarten grauenhaft ). Di fronte a ciò cui l’espressione allude, una via crucis continentale e di massa, il patriottismo, nei suoi deteriori portati xenofobi, appare un ipocrita inganno o una sinistra allucinazione collettiva: lo stupore con cui Katrin assiste all’arrivo dei prigionieri russi, riconoscendo in loro, in quelli che la propaganda di guerra rappresentava come barbari e selvaggi, uomini come tutti gli altri, la allontana definitivamente da ogni sudditanza alle parole d’ordine di un conflitto che anch’essa ormai interpreta semplicemente come “grauenhaft” (orribile). E non stupisce perciò che Katrin dedichi a Jaurès, l’unico personaggio storico su cui il diario indugia con una certa ampiezza (anche se non mancano, ma sono accenni fugaci, ritratti di generali e di membri della casa regnante), un simpatetico medaglione: «antimilitarista, pacifista e coraggioso sostenitore della politica di riavvicinamento alla Germania. […] Chissà se egli non sarebbe riuscito a far accettare il rifiuto della guerra ai socialisti francesi, e chissà poi come si sarebbero allora comportati i suoi compagni di partito del mondo intero» (p. 145, traduzione mia dal tedesco). Conseguenza dell’impegno fallito di Jaurès – che cade sotto i colpi di uno squilibrato il 31 luglio 1914 dopo aver tentato un’ultima volta di scongiurare la minaccia incalzante dello scontro franco-tedesco – lo scoppio di una guerra orribile, inimmaginabile e inattesa in un mondo di fanciulle in fiore, volteggianti tra i flirt e le feste danzanti del tiepido autunno lorenese; guerra che Katrin percepisce solo di striscio, ma con piena, sofferta immedesimazione. Nel contatto quotidiano con le vittime del conflitto – in tutte le possibili forme: feriti, prigionieri, sfollati – Katrin riconosce il volto orribile di un evento che nega ogni senso di umanità, e che troverà il suo simbolo più esplicito e la più tragica evidenza nella sfilata dei mutilati, sui cui corpi la violenza delle armi ha impresso segni incancellabili. «Presi servizio, e mi attendeva l’inferno», racconta Katrin di una giornata, in apparenza uguale a tutte le altre, al posto di ristoro della stazione; «arrivò un treno ospedale di quarantadue carrozze. I Paesi in guerra si scambiano i feriti gravi. In quarantadue carrozze si poteva vedere ciò che non era più utilizzabile per la guerra e che non valeva la pena di essere tenuto in Germania fino alla pace. Rimasugli di uomini. Rimandati in Francia attraverso la Svizzera. Qui da noi ne viene imbarcato qualche altro. Sulle stampelle, con una gamba infilata negli allegri calzoni rossi, e se mancano le gambe, con i calzoni drappeggiati sul tronco mutilato. Ma se un giovane, splendido ragazzone non ha più gli occhi, a che mai servirà l’ovatta? Gli si può riempire le orbite. Al suo fianco viene condotto un altro, in migliori condizioni. Gli occhi li ha ancora. Chi nota che fissano senza guardare, senza più vedere il sole? A uno pare che occhi, naso, bocca, orecchie siano stati mischiati in un bussolotto: nulla è al suo posto, eccezion fatta per la grande cicatrice rossa.» (p. 253, traduzione mia).

Il fastidio che Katrin avverte durante un breve soggiorno a Berlino nell’inverno del 1916 – la città è fermentante di vita, ignora con oscena allegria il tormento della guerra, se non nella forma ingannevole di mendaci bollettini di guerra («i miei cugini», osserva stupita, «parlano ancora, come i bollettini del 1914, dello spirito vittorioso del nostro coraggioso esercito» e vogliono tutto sapere della guerra e dei duelli aerei come se si trattasse di un affascinante mondo lontano) – è analogo a ciò che abbiamo letto in tanti diari di soldati a disagio nei giorni di licenza, incapaci di comunicare, di sentirsi, pur vicino ai familiari, di nuovo a casa. Chi ha visto il volto vero e peggiore dell’umanità in guerra non trova pace se non dove la morte è il destino quotidiano. Convivere con essa è un’abitudine difficile da apprendere, ma una volta imparata non lascia presa. La nota che chiude il romanzo – a firma di Suzanne Lacy, l’amica di Katrin cui il diario è stato affidato – esprime perfettamente il valore di manifesto che bisogna attribuirgli. La polmonite, Katrin, «deve averla non solo voluta ma anche attesa. […] Ha lasciato a me il suo diario. E io non credo di doverlo tenere solo per me stessa».