L’Autunno di Vivaldi

| | |

di Luigi Cataldi

 

Si avvia a conclusione questo inverno fin troppo mite, tanto che sembra d’essere in autunno. Un’occasione per riascoltare il concerto di Antonio Vivaldi che dell’autonno reca il nome, magari insieme alle altre Stagioni, magari nella recente esecuzione di Andrés Gabetta (violino e direzione) con l’Orchestra de l’Opéra Royal (2021), che ben coglie lo stile teatrale del concerto.

Perché è di teatro musicale e non solo di musica strumentale che si tratta, visto che, come nell’opera lirica, musica e testo evocano insieme specifici significati. Vivaldi infatti, che incluse le Quattro stagioni nella raccolta Il cimento dell’armonia e dell’invenzione, op. VIII (1725), vi aggiunse dei sonetti «dimostrativi sopra ciascun concerto» e una «distintissima dichiaratione di tutte le cose, che in esse si spiegano». Gli esecutori, che fra le note leggono le parole, sono i primi spettatori della rappresentazione, ma anche il pubblico, se legge mentre ascolta, ne può seguire la messinscena. Quella dell’Autunno in particolare, con le due vicende che vi si rappresentano.

La prima occupa le due quartine del sonetto e i primi due tempi del concerto. Un «vilanel» festeggia «del felice raccolto il bel piacere» e, con lui, «del liquor di Bacco accesi tanti / finiscono col sonno il lor godere». Sentiamo nell’orchestra l’aggraziata danza dei contadini in Fa maggiore, alla quale (nella forma-ritornello tipica del concerto vivaldiano) risponde il violino solista. È lui il «vilanel». Ha già cominciato a bere, ma ancora mantiene l’equilibrio e il ritmo. Per poco però. Dopo un altro breve ritornello orchestrale, perde il passo, ma conquista la scena: arpeggi e volatine discendenti, improvvisi rallentando e accelerando, trilli come grida e scivoloni verso il grave che finiscono in salti che paiono singhiozzi. Le danze continuano ed anche gli spropositi del «vilanel», fino al sonno, che giunge già nel larghetto del primo movimento. Nel secondo tempo il violino tace, poiché il «vilanel» dorme. Godono «tanti e tanti / d’un dolcissimo sonno», dice il sonetto. Sonno di «ubriachi dormienti», dice invece la didascalia in partitura, sonno inquieto se si ascolta la musica: gli archi con sordina, con lunghe note fisse, accompagnate dagli arpeggi del cembalo, disegnano un’armonia dissonante e continuamente modulante che troverà pace, dopo un lungo pedale di note tenute al basso, solo sul La maggiore, dominante della tonalità principale di re minore, di cui siamo certi solo in questo punto.

Nella seconda scena, descritta nelle terzine del sonetto, «I cacciator alla nov’alba a caccia / con corni schioppi e canni escono fuore. / Fugge la belva e seguono la traccia». Il violino solista qui si fa belva. La caccia è impersonata dall’orchestra, che tornata alla solida tonalità d’impianto di Fa maggiore, con il ritmo del passo dei cavalli e la grazia di una danza, segue la sgraziata belva, la quale, «Sbigottita e lassa al gran rumore / de’ schioppi e canni, ferita minaccia / languida di fuggir, ma oppressa muore». Sentiamo in orchestra i latrati, gli spari, il festoso ed eccitato ritmo dei cacciatori a cavallo, ma ascoltiamo il violino in fuga, ferito, spaventato, circondato e ridotto infine al silenzio.

Nonostante l’apparenza lieta, l’Autunno, come l’Estate (diversamente dagli altri due concerti) ha contenuto tragico. È messa in scena non la natura in sé (rovinosa e devastatrice nell’Estate, lieta nella Primavera), ma la società in un contesto naturale. Il violino di Vivaldi è eccentrico e scoordinato rispetto al ballo ritmato degli altri contadini e diviene voce di belva angosciata e inerme di fronte al passo, cadenzato come una danza, di una società in nobile svago. Una rappresentazione non bucolica, né consolatoria del mondo rurale.

 

1

Anonimo

Ritratto presunto di

Antonio Vivaldi

olio su tela, 1723

Museo Internazionale e

Biblioteca della Musica

Bologna