L’avvento di homo technologicus e del post-umano

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Homo technologicus: un’unità evolutiva ibrida, un simbionte in via di continua trasformazione. In questa prospettiva, Homo sapiens è sempre stato il simbionte Homo technologicus

 

La tecnologia non è neutra, ma stimola sentimenti ed emozioni profonde e contrastanti

 

È forse intorno al concetto sfuggente ma ineludibile di felicità che si misura la portata rivoluzionaria del post-umano tecnologico più spinto

 

di Giuseppe O. Longo

 

 

La tecnologia concorre da sempre a foggiare l’essenza dell’uomo. Lo sviluppo della tecnologia ha accompagnato lo sviluppo di Homo sapiens, l’ha causata e ne è stata causata, grazie a un processo dinamico coevolutivo. Insomma l’evoluzione della tecnologia contribuisce potentemente all’evoluzione dell’uomo, anzi le due evoluzioni si sono strettamente intrecciate in un’evoluzione “bioculturale” o “biotecnologica”, al cui centro sta Homo technologicus: un’unità evolutiva ibrida, un simbionte in via di continua trasformazione. In questa prospettiva, Homo sapiens è sempre stato il simbionte Homo technologicus.

L’esistenza e la perpetua trasformazione di questo simbionte, in passato poco visibili, tanto da autorizzare, in molte filosofie e in molte religioni, una visione fissista della natura umana, oggi, per il continuo potenziamento della tecnologia, sono piuttosto evidenti. Da sempre il corpo umano è stato ampliato da strumenti, protesi e apparati che ne hanno esteso e moltiplicato le possibilità d’interazione col mondo, in senso sia conoscitivo sia operativo. L’avvento di Homo Technologicus è da molti ormai associato o addirittura identificato con la comparsa del post-umano.

Nel processo di ibridazione si possono distinguere diversi casi. Il primo contempla l’uso di strumenti esterni al corpo (computer, cellulari, ma anche occhiali e stampelle). Nel secondo caso gli strumenti entrano nel corpo, affiancandosi o sostituendosi agli organi per alleviare o rimediare a difetti o menomazioni (arti protetici, stimolatori cardiaci). Il terzo caso corrisponde a un innesto di dispositivi che potenziano capacità esistenti o ne fanno addirittura comparire di nuove, senza tuttavia che la personalità del soggetto venga alterata. L’ultimo caso riguarda il potenziamento delle capacità cognitive mediante interazione tra il cervello e dispositivi informatici (interfacce cervello-computer), e ciò può interferire con la coscienza e la personalità.

Se in tutti e quattro i casi si può parlare di Homo technologicus, è solo nel terzo e soprattutto nel quarto che si può parlare a buon diritto di post-umano. Innestandosi nell’uomo, ogni nuovo apparato dà luogo a un’unità evolutiva (un simbionte) di nuovo tipo, che attua potenzialità umane – percettive, cognitive e attive – inedite e a volte del tutto impreviste, e di questa coevoluzione ibridativa non è possibile indicare i limiti.

Le tecnologie che preparano l’avvento del post-umano – dalla genomica alla robotica, dall’informatica alle nanotecnologie . si tingono di una forte coloritura emotiva derivante soprattutto dalla possibilità che l’uomo prenda in mano le redini della propria evoluzione. Come tutti i progressi tecnici, anche questo suscita entusiasmo o all’opposto viva preoccupazione: la tecnologia non è neutra, ma stimola sentimenti ed emozioni profonde e contrastanti. Se è sempre pronto a superarsi, l’uomo nutre anche l’oscuro timore che la sua audacia sia punita.

La prospettiva del post-umano coinvolge e stravolge molti dei concetti che la tradizione ci ha consegnato. Sul piano teorico sfumano alcune distinzioni consolidate, in primo luogo quella tra naturale e artificiale, e viene messa in discussione la cosiddetta sacralità della natura. Ormai l’uomo, armato delle sue tecnologie, cessa di riprodursi secondo i meccanismi della lotteria cromosomica e comincia a prodursi in base a precise specifiche progettuali.

Un altro baluardo etico-culturale scosso dalla prospettiva post-umanista riguarda la definizione di persona: poiché le pratiche genomiche, nanotecniche, informatiche e robotiche incidono radicalmente sul corpo e poiché il corpo è fondamentale nella definizione di persona, ecco che le tecnologie del post-umano rendono problematica la definizione di identità umana.

Si apre qui il problema se esista nell’uomo qualche caratteristica indisponibile, cioè non assoggettabile a manipolazione pena lo snaturamento o la disumanizzazione; un tratto insomma che consenta di distinguere ciò che è prodotto per via tecnica da ciò che è derivato dall’evoluzione non inquinata dall’intervento umano.

Se questo tratto indisponibile esistesse, la dicotomia tra naturale e artificiale si rifletterebbe nella dicotomia tra umano e non umano. Se all’opposto si ammettessero senza riserve nella categoria dell’umano i prodotti delle manipolazioni tecnologiche, si avrebbe una totale identificazione tra uomo e post-uomo e si accetterebbe un’evoluzione in cui natura e cultura (intesa soprattutto come tecnologia) sarebbero indistinguibili.

Tali considerazioni fanno sorgere alcune domande di fondo: si deve accettare come inevitabile questa evoluzione biotecnologica verso il post-umano? Oppure si deve considerare la specie umana nota fin qui come una sorta di patrimonio inalienabile (e patrimonio di chi? dell’umanità stessa?)? E in nome di che cosa dovremmo optare per l’una o per l’altra scelta?

Se l’uomo, com’è stato affermato, è un essere naturalmente artificiale, come si può pensare di snaturarlo arrestando il suo sviluppo verso il post-umano, che, in questa visione, sarebbe un esito, appunto, naturale? Infatti, si può argomentare, se l’uomo fa parte della natura, anche tutti i suoi prodotti ne fanno parte a buon diritto, anche quando dovessero comprendere forme nuove di umanità. In questo senso l’uomo sarebbe il mezzo di cui la natura si servirebbe per accelerare e arricchire l’evoluzione, delegandone all’uomo il prolungamento e l’esercizio ulteriori.

All’opposto, se si ritiene che l’umanità (come si è sviluppata fin qui) sia un valore, il passaggio al post-umano segnerebbe la scomparsa o almeno l’atrofizzazione dell’umanità, della biologia umana e della cultura umana.

A quest’ultima visione si può obiettare ponendo la questione del momento di passaggio o del punto di non ritorno: quando, esattamente, l’umano cede o cederebbe il passo al post-umano? L’uomo non è forse sempre stato post-umano, nel senso di essere sempre stato ibridato con l’altro — piante, animali, cibo, farmaci, droghe e, oggi, le macchine – e modificato, aumentato e migliorato dalle pratiche artificiali? Insomma, il passaggio, al post-umano non è forse sempre esistito nella nostra storia, graduale e progressivo (anche se sempre più veloce), piuttosto che brusco? Siamo sicuri che esista un momento in cui (o una tecnologia per cui) si può o si potrebbe dire: qui cessa l’umano e comincia il post-umano?

Questo punto di vista da una parte renderebbe meno traumatico il concetto di post-umano, inserendolo in uno sviluppo evolutivo continuo e naturale (o natural-culturale), ma dall’altra conferirebbe all’uomo, di qui in avanti, la piena responsabilità della propria evoluzione, mettendo in luce una discontinuità, questa sì radicale: se è vero che l’uomo è sempre stato post-umano, è anche vero che soltanto oggi se ne rende conto, grazie alla potenza acquisita dalla tecnica. Tale nuova consapevolezza pone in tutta la sua drammaticità il problema etico.

I post-umanisti più radicali, specie americani, non hanno troppi dubbi e adottano il punto di vista della continuità tra natura e uomo, anzi ritengono che la tecnologia sia ormai la vera natura. Questo era anche il punto di vista di Pierre Teilhard de Chardin, che già settant’anni fa aveva affrontato, con geniale preveggenza, problemi di questo tipo. Più cauti e preoccupati sono in genere gli europei, tra i quali alcuni credono ancora in una sorta di sacralità della natura e nell’esistenza di tratti umani essenziali, scomparsi o alterati i quali l’umanità non esisterebbe più.

In entrambi i loro aspetti, terapeutico e migliorativo, le tecnologie che stanno alla base delle versioni presenti e prossime del post-umano, si collegano al desiderio di longevità e di sanità fisica e mentale. Questo desiderio sfocia nel miraggio insostenibile dell’immortalità: vorremmo che la pienezza della vita durasse per sempre, avviandoci – giovani, belli, vigorosi – sulle strade dell’esistenza infinita. Ma apparteniamo al regno della biologia, dove l’immortalità non ha cittadinanza: essa resta un miraggio, che vive soltanto nei miti e nei sogni. O negli incubi.

Tuttavia, molti ricercatori del post-umano teorizzano una durata illimitata della vita ottenuta con gli espedienti più vari: ibridazione con le macchine, costruzione di corpi artificiali e rinnovabili, riversamento della mente in supporti inalterabili, traduzione della personalità dell’uomo in programmi da computer, con la possibilità di potenziarli e aggiornarli continuamente e di farne più copie. Nella prospettiva post-umanista è in prima linea il potenziamento dell’intelligenza e la conseguente possibilità di rispondere alle domande fondamentali della scienza. Alla base di ciò sta un principio in apparenza semplice: la conoscenza è un bene, l’ignoranza è un male. È sulla base di questo principio che gli scienziati continuano a cercare risposte agli assillanti interrogativi concernenti il cosmo e l’uomo.

È forse intorno al concetto sfuggente ma ineludibile di felicità che si misura la portata rivoluzionaria del post-umano tecnologico più spinto. Un tempo si perseguiva la felicità cercando di condurre una vita buona e virtuosa e accettando i limiti dell’umano, in primo luogo la finitezza della vita terrena, e rinviando l’immortalità alla vita ultraterrena. Nella prospettiva post-umana, la felicità si perseguirebbe tramite la realizzazione completa di ciascun individuo, cioè tramite il superamento di tutte le limitazioni, la sconfitta di tutte le patologie e, alla fine, della morte stessa. Questo percorso condurrebbe l’uomo alla vita e alla felicità perfette, prolungando così l’opera della natura o, in chiave religiosa, collaborando fattivamente al compimento della creazione: la Creatura aiuterebbe il Creatore.

 

 

 

La locuzione Homo Technologicus, ora adottata in campo internazionale, fu introdotta da Giuseppe O. Longo in un libro intitolato appunto Homo Technologicus, pubblicato da Meltemi nel 2001 e ripubblicato nel 2012 da Ledizioni.