Le arse argille di Carlo Levi

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Cristo, per molti versi, non ha ancora superato Eboli

di Walter Chiereghin

 

Vivamente raccomandato togliere dallo scaffale Cristo si è fermato a Eboli, lettura, o anche rilettura propedeutica a quella di questo documentato saggio di Nicola Coccia L’arse argille consolerai: Carlo Levi dal confino alla Liberazione di Firenze attraverso testimonianze, foto e documenti inediti, perché il libro di Levi costituisce certo il migliore vestibolo per aggirarsi poi nell’ampio edificio che è quello di Coccia, una seconda edizione che incorpora, rispetto alla prima del 2015, nuovi materiali inediti, frutto, gli uni e gli altri, di ricerche protratte per anni, tra archivi, biblioteche ed interviste, a partire dal 2008.

Appena entrati nell’edificio di Coccia, giornalista di lungo corso con trascorsi all’Avanti!, al Lavoro di Genova e infine alla Nazione di Firenze, ci si ritrova nei luoghi di Cristo si è fermato a Eboli, dove il lettore che non ha familiarità con la Basilicata, se non principalmente per quanto nel libro di Levi ha potuto leggere, scopre in primo luogo che negli ottant’anni e più che lo separano dal periodo in cui l’artista subì il confino assai poco è mutato, nonostante la presenza dei giacimenti petroliferi lucani, al punto che Matera, patrimonio dell’Unesco dal 1993, capitale quest’anno della Cultura europea, non è tuttora raggiungibile in treno, se non per mezzo di una linea a scartamento ridotto che la collega con Bari.

Cristo dunque, per molti versi, non ha ancora superato Eboli.

A Grassano, una quarantina di chilometri ad Ovest di Matera, Levi arrivò il 3 agosto 1935, scortato da due carabinieri, dentro una Balilla condotta da un “americano”, ossia da un ex emigrante lucano rimpatriato. Erano i primi passi che compiva all’aria aperta, sia pure ammanettato, dopo la detenzione a Regina Coeli dov’era ristretto dal 15 giugno. Trovò alloggio presso una locanda, sul corso principale del paese, che ospitava allora novemila anime, ridotte ai giorni nostri a poco più di cinquemila. Dormiva in una stanza a due letti, infestata dalle zanzare, e quando non vi era più posto nell’altra stanza doveva dividere la sua con qualche altro ospite di passaggio. Trovò poi una sistemazione più degna, un appartamento sopra la bottega di un falegname, la cui moglie provvedeva a sbrigare per lui le faccende domestiche. Incominciava così la galleria dei ritratti che faranno poi parte del Cristo, il microcosmo di donne, di anziani, di bambini, di animali da cortile che dipingeva nelle sue tele, ma che rimanevano fissati anche nella sua memoria, dalla quale sarebbe stato in grado più tardi di estrarli per comporre, con uno strumento diverso dai suoi pennelli, la stupefacente galleria di personaggi che animano il suo romanzo, sullo sfondo dei paesaggi di calanchi argillosi desolati che a loro volta diventano personaggio sia nelle tele che nelle pagine del libro, alla pari con le creature ritratte con sentita partecipazione emotiva.

Avrebbe dovuto restarci tre anni, al confino di Grassano, ma fu trasferito invece dopo quarantacinque giorni, probabilmente anche perché era stato raggiunto nel mese di settembre da Paola Levi, figlia del professore di anatomia Giuseppe Levi, triestino, antifascista, noto per essere stato maestro di tre nobel per la medicina (Rita Levi Montalcini, Renato Dulbecco e Salvador Luria), sorella di Natalia Ginzburg e moglie dell’industriale Adriano Olivetti. Con lei Levi, che la conosceva fin dagli anni del liceo a Torino, aveva iniziato un’intensa relazione sentimentale fin dall’anno precedente, storia che perdurerà ancora per diversi anni, naufragando alla fine a Firenze, quando Paola si innamorerà, ricambiata, di un altro scrittore, anch’egli medico: Mario Tobino. La visita, autorizzata dal Ministero degli Interni, mise in allarme i tutori dell’ordine, che con un pretesto fecero visita a Levi e scoprirono che la signora soggiornava in una stanza comunicante con quella del noto antifascista. Si mise allora in moto un carteggio che confluì in una comunicazione del prefetto al Ministero dove si segnalava che « “risulta che fra la Olivetti Paola e il Levi Carlo intercorre relazione amorosa”. E poiché Paola è sposata con l’ingegner Olivetti “si ritiene inopportuno che possa venire ulteriormente autorizzata a recarsi a Grassano e si ritiene anche opportuno l’allontanamento da Grassano del Levi Carlo, perché in quella popolazione non sembri che col consenso delle autorità, i confinanti, nel luogo di confino, possano mantenere relazioni contrarie agli indirizzi del governo fascista per la tutela della famiglia”.» (p. 53).

Fu tradotto ad Aliano (che nel libro chiamerà sempre Gagliano) il 18 settembre. Fu con dispiacere che Levi dovette lasciare il piccolo centro lucano per approdare a uno ancora più precario ed esiguo (poco più di 1.700 abitanti allora, meno di 1.000 oggi). A Grassano, per dirne una, vi erano due medici degni di questo nome, Garaguso e Zagarella, che era anche il podestà, e sotto la loro guida si stava tentando utilmente di combattere la malaria, flagello endemico della zona. Oltre a ciò, Levi era riuscito ad allacciare rapporti con molti altri abitanti, che vollero fargli mentre era costretto ad andarsene l’omaggio di un cane, e fu così che Barone entrò nella vita dell’intellettuale piemontese, per diventare il suo fedele compagno di confino. Ad Aliano, invece, lo accoglie una comunità ancora più abbandonata a se stessa, dove più marcato si avverte il discrimine tra l’arroccata sciatteria di una minima borghesia dominante e una rassegnata massa di contadini afflitta dall’impotente contemplazione della propria condizione, fatta di miseria materiale e spirituale, di ignoranza e di malaria.

Levi si colloca a cavallo di tali due blocchi sociali, per la sua qualità di borghese intellettuale del Nord, artista, medico e come tale riconosciuto impropriamente come affine dalla “casta” dominante, che ovviamente pure lo discrimina per la sua condizione di confinato, mentre al contempo risulta in qualche modo gradito dall’altra parte, quella dei contadini, che vedono in lui un possibile alleato in grado di attenuare le loro molte difficoltà. Avviene così che Levi sia coartato ad esercitare la professione medica che pure aveva accantonato, per la scarsa o nulla stima nella quale erano tenuti i due medici del borgo, Giuseppe Milillo e Concetto Giblisco, il che lo rende immediatamente popolare in maniera trasversale tanto tra i poveri, quanto a personalità come don Luigi Magalone (in realtà Garambone), podestà e maestro elementare, sua sorella donna Cristina (in realtà Caterina). Tutte persone che ora, ci informa Coccia, giacciono dove è sepolto Carlo Levi, nel medesimo piccolo cimitero che costituiva durante il confino il limite estremo consentito alle sue passeggiate. «Anche se quella non era la sua terra Levi ne rimase talmente colpito che continuò ad amarla, dipingerla e raccontarla per tutta la vita. Trasformò Aliano nel centro del mondo» (p. 19).

Quello che allora Levi fece diventare il centro del mondo è rimasto, a sentire Coccia che l’ha visitato per i suoi lettori, sostanzialmente uguale ad allora, nonostante sia stata debellata la malaria e qualche marginale ritocco dovuto alla tecnologia, i televisori, le automobili, gli elettrodomestici, ma nella sostanza «ad Aliano il passato non è ancora passato» (p. 25): «ottant’anni dopo […] sembra più un’invenzione letteraria che un paese reale» (p. 9).

Eppure Levi in Lucania sembrava paracadutato da un pianeta lontano. A cominciare dalla formazione politica, alla quale non avrebbe mai mostrato le spalle, anche negli anni più duri del regime fascista e poi nella clandestinità della Resistenza, nella Firenze che preparava l’insurrezione contro i nazifascisti tra il ’43 e il ’44. Difficilmente avrebbe potuto essere diversamente, per un ragazzo con uno zio, Claudio Treves, deputato del Partito Socialista, direttore dell’Avanti!, che tra l’altro aveva sfidato a duello Benito Mussolini poco dopo che questi aveva fondato Il Popolo d’Italia. E poi la vicinanza a Piero Gobetti, incontrato all’università, e ancora ai fratelli Rosselli, conosciuti a Firenze durante il servizio di leva. Con tutti questi e numerosi altri Levi intrattenne rapporti tanto in Italia che a Parigi, dove disponeva di uno studio per la sua attività di pittore. Fu arrestato una prima volta nel 1934 insieme a Leone Ginzburg, Giuseppe Levi ed altri quattordici, ma venne scarcerato dopo quasi due mesi per insussistenza delle prove. L’anno dopo, il 15 giugno, venne arrestato una seconda volta nel suo studio, presente lo scrittore Mario Soldati. Insieme a lui furono arrestati in quell’occasione numerosi antifascisti, tra cui Cesare Pavese e Giulio Einaudi. Benché fosse nota alla polizia la sua appartenenza al circolo torinese di Giustizia e libertà, diretto da Vittorio Foa, attorno al quale gravitavano anche Massimo Mila, Ludovico Geimonat, Norberto Bobbio, Franco Antonicelli, non sussistevano prove sufficienti per deferirlo al tribunale speciale, per cui si adottò per lui, e per alcuni altri, il provvedimento amministrativo del confino. Avrebbe dovuto scontare tre anni, ma – in seguito alla proclamazione dell’impero – gli fu condonato il periodo rimanente e il 26 maggio ripartì per Torino, dove riprese il suo lavoro di artista assieme a quello di oppositore politico del regime.

Spiace che lo spazio non ci consenta di seguire, anche riassumendo assai, la narrazione avvincente che fa Coccia del periodo che seguì il confino: anni di costante impegno artistico e politico, fino al terzo arresto il 26 giugno del ’43. Fu tradotto da Torino a Firenze, alle Murate, e fu lì che «la libertà arrivò all’improvviso in un giorno di festa» (p. 85): era il 25 luglio. Due giorni dopo Levi fu rimesso in libertà e riprese la lotta in seno a Giustizia e Libertà: ad agosto, insieme a Cancogni, si recò a Roma, dove fu ospitato da Renato Guttuso e dove, assieme a Lelio Basso, Sandro Pertini, Giuliano Vassalli e molti altri esponenti della Resistenza, assistette alla fondazione del Partito socialista di unità proletaria, Psiup, alla cui segreteria fu nominato Pietro Nenni. Pochi giorni più tardi partecipò a Firenze alla fondazione del Partito d’Azione, ma l’effervescente clima seguito alla caduta di Mussolini doveva franare poco più tardi, l’otto settembre. Tre giorni dopo la città era saldamente in mano ai militari tedeschi, mentre sparuti gruppi di fascisti rialzavano la testa.

Anche la persecuzione razziale andò a sommarsi ai problemi legati alla sua militanza antifascista, il che gli rese obbligata la via della clandestinità, in gran parte vissuta a Firenze, dove incontrò molte importanti personalità, da Eugenio Montale a Mario Luzi, da Carlo Emilio Gadda a Manlio Cancogni e, alla fine della guerra, Umberto Saba e sua figlia Linuccia, con la quale incrocerà il resto della sua vita. A Firenze trovò varie sistemazioni, dopo che la prudenza gli consigliò di lasciare lo studio di Piazzale Donatello. Fu ospitato per alcuni giorni da Montale, indi da una sua modella, Giustina, quindi da una giovane filologa, Imelde della Valle, poi da Paola Olivetti, nella sua villa di Fiesole, e ancora in altri posti meticolosamente annotati da Coccia, fino all’approdo al grande appartamento di Anna Maria Ichino in Piazza Pitti 14, proprio di fronte all’estesa facciata in bugnato rustico del palazzo che fu residenza medicea e reggia di Vittorio Emanuele II nel periodo di Firenze capitale del regno d’Italia.

Quell’appartamento fu la residenza definitiva per Levi, fino alla liberazione di Firenze, accanto alla straordinaria personalità della Ichino, con la quale lo scrittore stabilì un rapporto di affetto che si estese anche al figlioletto di lei, la cui vita venne recisa proprio nei giorni più bui della storia della città.

L’appartamento fu anche il luogo in cui scrisse il suo Cristo si è fermato a Eboli, riempiendo a matita un foglio dopo l’altro, mentre la padrona di casa s’era incaricata di battere a macchina il manoscritto, custodito dal 1962 in un fondo manoscritti dell’Università del Texas ad Austin (p. 278 seg.). «Carlo Levi aveva impiegato otto mesi per scrivere il Cristo, ma ci aveva pensato per otto anni» (p. 228).

Uscito nella primavera del 1945, il libro ebbe nel solo anno del debutto nove edizioni, per 60.000 copie. Né sembra mai cessare la straordinaria fortuna del romanzo, che si avvicina oggi, probabilmente, a circa un milione di copie vendute. Nel 1973 fu inoltre prodotto il film di Rosi con Gian Maria Volonté protagonista e Irene Papas nel ruolo della Santarcangelese.

Nel 1960 Levi tornò una volta di più sui luoghi del suo romanzo, nei quali era stato in diverse precedenti occasioni, a partire dalla campagna elettorale del 1946, quando aveva conosciuto Rocco Scodellaro, poeta, scrittore e giovane sindaco socialista di Tricarico, che «per l’impegno civile, per la passione sociale e politica gli ricordava Pietro Gobetti. Dell’amico torinese Carlo Levi si considerava un “discepolo”, di quello lucano il fratello maggiore» (p. 288). Nel viaggio compiuto nel ’60 Levi si fece accompagnare da un fotografo professionista, Mario Carbone, che riprese luoghi e persone, materiale che poi servì a Levi per la creazione di un suo importante dipinto, un “telero” intitolato Lucania 61, lungo 18,50 metri e alto 3,20 (p. 299), oggi custodito a Matera, a palazzo Lanfranchi, sede del Museo nazionale d’arte medievale e moderna. L’opera, assieme a molta parte dei lavori pittorici di Levi, può considerarsi la riscrittura con altri mezzi del Cristo, a testimonianza della centralità nella vita dell’autore del periodo trascorso al confino, del suo incontro critico con una realtà marginale, complessa e distante dagli ambiti nei quali era prima di allora vissuto, che egli seppe far propria e portare all’attenzione del mondo, animandola con la carica di empatia che seppe comunicare sia per mezzo della scrittura che della pittura.

Molte cose non riescono ad entrare nel troppo breve spazio dedicato a questo riassunto del libro di Nicola Coccia, autentica miniera di dati e informazioni che non si limita a ricostruire la biografia di Levi, ma fornisce, mediante meticolose ricostruzioni di ambienti, biografie ed eventi, un’immagine articolata di un periodo storico fondamentale per il nostro Paese, nella sua transizione dal regime fascista alla democrazia repubblicana. Nella vita di Carlo Levi si incrociarono quelle di molti altri protagonisti della cultura e della lotta civile di tale periodo: basti sfogliare le oltre dieci pagine dedicate all’indice dei nomi per farsi un’idea della qualità e della straordinaria articolazione del lavoro di indagine svolto da Coccia, che invita il lettore a ripercorrere con ulteriori letture e approfondimenti una quantità di suggestioni che sono rinvenibili nella meritoria poderosa ricostruzione proposta dal libro.