Le lettere di Carlo e Giani Stuparich

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La EUT, Casa editrice dell’Università di Trieste inaugura la collana “Archivio Stuparich”, dedicata alle scritture private di Giani Stuparich

Le lettere possono essere considerate un’officina poetica, un cantiere delle opere future

di Gianni Cimador

 

 

Con la pubblicazione dell’epistolario di Giani e Carlo Stuparich, Lettere di due fratelli 1913-1916, curata da Giulia Perosa, con un saggio introduttivo di Giuseppe Sandrini (EUT, 2019), la Casa editrice dell’Università di Trieste inaugura la collana “Archivio Stuparich”, dedicata alle scritture private di Giani Stuparich, lettere e diari, a partire da quelle acquisite dalla Biblioteca Civica “Attilio Hortis” di Trieste: sono testimonianze importanti sugli anni di formazione dello scrittore e sul percorso che lo avrebbe poi portato alla narrativa, dopo le esperienze cruciali della Grande Guerra, della perdita del fratello Carlo e dell’amico Scipio Slataper.

Il carteggio di Giani e Carlo, che inizia nell’ottobre del 1913 e prosegue fino al gennaio del 1916, oltre a comprendere materiali inediti dell’Archivio diplomatico della Biblioteca Civica di Trieste e dell’Archivio familiare di Roma, raccoglie una selezione di lettere e cartoline di Carlo già edite da Giani, con revisioni e tagli, nel 1919 e in seguito, con ampliamenti, nel 1933 in Cose e ombre di uno; è molto più articolato e regolare rispetto ai materiali autobiografici degli anni 1910-1913, conservati nell’Archivio familiare, anche perché riflette, in entrambi i fratelli, una maggiore consapevolezza, favorita dai periodi in cui sono separati e lontani da Trieste.

Nell’autunno del 1913, quando Giani e Carlo hanno rispettivamente 22 e 19 anni, si rileva un salto di qualità nella loro corrispondenza che, come nota Giulia Perosa, “non appare più come uno scambio univoco, in cui Giani, da Praga o da Firenze, aggiorna il fratello in merito alle nuove correnti letterarie e culturali, ma diventa uno scambio alla pari, intessuto di ambizioni, di speranze e di delusioni condivise”: Carlo, dopo aver finito il Ginnasio, si è iscritto all’Istituto di Studi Superiori di Firenze, mentre Giani è a Praga per il quarto anno universitario, dopo aver frequentato anch’egli, fra 1911-12, l’Istituto fiorentino.

La lontananza dei due fratelli da Trieste, centro di gravità del loro mondo interiore, li rende ancora più consapevoli della necessità di riscoprire le radici e di impegnarsi attivamente “nell’impresa di schiarimento della nostra anima triestina”, li costringe a un confronto serrato con se stessi, con la propria sostanza umana più profonda, che la solitudine mette in evidenza: è la prospettiva di due ventenni che si affacciano alla vita con le loro aspirazioni, le inquietudini, gli slanci ideali spesso messi in discussione da una realtà arida e complessa che stimola, tuttavia, in entrambi, la ricerca di un equilibrio e il superamento costruttivo delle proprie incertezze, fino a riconoscere nella Guerra il “grande Dio che bisognava creare”, l’esperienza ideale per fare chiarezza su se stessi e sull’idea di Nazione, per verificare la consistenza dei propri valori.

Sandrini parla giustamente di “acerbo Novecento romantico, vanamente in cerca della sua classicità”: l’esigenza di definire un profilo intellettuale e un orizzonte letterario e filosofico nel quale trovi espressione l’ansia di verità esistenziale si intreccia con il bisogno di trovare uno ‘stile’ in senso più ampio, un “accordo tonale con la vita”. Da questo punto di vista, le lettere possono essere considerate un’officina poetica, un cantiere delle opere future: l’interesse per la forma epistolare, che è di per sé stessa sperimentale, e per il romanzo di formazione ispira “la scelta di sviluppare il racconto di una doppia Bildung, concepita attraverso l’intreccio di due percorsi di maturazione distinti ma armonizzati tra loro”.

In questa stessa prospettiva si colloca il progetto dei “quadri antichi”, un’opera a quattro mani, nella quale Giani indicherà il primo nucleo del romanzo Ritorneranno (1941): proprio la “continua fluidità tra autobiografia, scrittura privata e scrittura narrativa”, già riconoscibile nelle lettere, sarà una delle cifre distintive dello scrittore e il confronto con Carlo proseguirà anche dopo la sua morte nel 1916, attraverso la pubblicazione dei Colloqui con mio fratello e dei lavori incompiuti.

Anche se sono diversi i generi e i modelli letterari a cui Giani e Carlo guardano, un punto di riferimento imprescindibile è il Wilhelm Meister di Goethe, un’opera nello stesso tempo ‘chiusa’ e moderna: come scrive Giani, le Lettere di due fratelli saranno la “storia dei nostri ultimi anni attraverso le nostre anime individuali”, la “visione netta precisa del movimento delle nostre personalità e della sua espressione, – soprattutto la linea ben chiara -, esperienze (famiglia, scuola, università), cultura intima (filosofia, storia) – tutto questo armonizzato, proiettato dal contingente nell’universale”. L’obiettivo sembra essere quello di un’ “opera-mondo”, come direbbe Franco Moretti.

Ciò da cui Giani in particolare vuole allontanarsi è l’autobiografismo lirico degli intellettuali della “Voce” e di Scipio Slataper: è alla ricerca di uno stile di scrittura nuovo, di un’arte “vergine e pura”. Carlo è il primo critico e correttore del fratello: gli raccomanda di evitare la “generalizzazione psicologica” e di limitare la tendenza a dimostrare piuttosto che a narrare, invitandolo a leggere De Sanctis, “uno dei nostri più grandi uomini”, un modello per la “larga aria di mare” che si respira nella sua “stesura senza agguati” e un antidoto rispetto a quella “introspezione sottile” che “ti mangia la carne succulenta e ti aridisce”; lo esorta a rompere “l’incantesimo dei convenzionalismi sociali che ti nasconde il corpo vivo palpitante” e che si traduce in una sentimentalità oziosa e ipocrita, scambiata per profondità.

Per Carlo la vera conquista è il “senso storico”, quella “concretezza di vita” che i suoi squilibri interiori gli impediscono di raggiungere pienamente: in quest’ottica, un altro modello è Bach, “un artista che esige il sacrificio di ogni velleità, di ogni personalità di esecutore: un esecutore è tanto più personale quanto più si spersonalizza: è una nuova piccola esperienza critica”.

Sul piano esistenziale, Giani è inevitabilmente più maturo e ridimensiona gli eccessi idealistici di Carlo, che lo portano a vivere anche momenti di forte crisi: si tratta in realtà di “gran gesti trinciati in aria: assai gesticolazione ma poco avanzamento”. Quando suggerisce a Carlo di “perseverare nei suoi obiettivi” ed “essere intransigente”, di vivere “da egoista” e “osservare e confrontare e lasciar parlare meno possibile il sentimento, perché se questo fa troppo fumo si pericola di restar senza niente e col mal di testa”, restituisce al fratello minore i consigli che questo gli dà sul piano letterario: l’uno è, reciprocamente, il riflesso dell’altro, in un continuo contrappunto critico che li sprona ad analizzarsi, a riconoscere con lucidità limiti e risorse.

Per Giani le crisi sono sempre false, temporanee, legate a una sopravvalutazione di sé stessi: “Ogni nostro atto è un dualizzare: un contrapporre noi a ciò che facciamo. E cerchiamo di affermare il nostro essere prima di essere effettivamente. Sì: andiamo alla caccia di affermazioni perché semplicemente non abbiamo nulla da affermare. E ci illudiamo che a forza di desiderare di essere qualcosa lo saremo. Il nostro è un continuo cercare con le mani in saccoccia”.

Ciò che attanaglia i fratelli è la sensazione di incompiutezza, l’ansia, tipica dei ventenni, di proiettarsi nel Futuro e di definire un’identità: la avvertiamo quando Giani sottolinea che “Il mio bisogno è di aver una base più larga della mia persona, di esser sottoposto a reazioni, di agire in un sistema di forze già creato e che non debba sempre mandar la mia attività in parallele … Mi secca maledettamente di dover pensare a questa mia vita d’adesso come a periodo di preparazione”.

Praga e Firenze rappresentano, rispettivamente, per Giani e Carlo delle cartine al tornasole delle loro personalità, soprattutto quando li mettono in crisi e non corrispondono alle aspettative, talvolta ingenue e smisurate, dei due giovani: se Praga sembra una “Teabaide” al “povero monaco assetato della vita multiforme e intensa” ed è forte la delusione di Giani per il mondo tedesco povero di idealità, Firenze è altrettanto deludente per Carlo che la considera “tutta cosa di superficie”, anche se il fratello lo esorta al realismo, perché “l’uomo non deve sperare senza ragione, o speri pure ma la sua speranza sia una realtà, una realtà poetica, sempre cioè qualche cosa di concreto, di pieno”.

Pur mettendo a dura prova il sistema nervoso dei fratelli e la ricerca di una unità fra esperienza e coscienza, le due città avranno un ruolo fondamentale nella loro maturazione umana e culturale: Carlo se ne renderà conto quando lascia Firenze nel giugno del 1914 e torna a Trieste che gli appare “antipatica”, provinciale (“Veder tutte le cose attraverso la lente della ‘triestinità’ è umiliante, deprimente; vorrei essere italiano senza essere triestino”).

Nel bene e nel male, il rapporto dei due fratelli con Trieste è fisiologico, imprescindibile: come scrive Carlo, “la nostra storia è una bestia assai paziente, non si irrita per la tua ingratitudine e per i tuoi dinieghi e non ti lascia, ti tiene stretto stretto con i suoi denti dolci-inesorabili e ti mena avanti malgré toi”.

Ciò che Carlo ha a Firenze, nonostante i rapporti non sempre facili con Prezzolini e la sensazione di stare sempre male, non attenuata neppure dalle esperienze sessuali e sentimentali, manca a Giani a Praga: è un malessere prodotto, in entrambi i casi, dall’idealismo, ovvero dalla “mancanza di prospettiva” e dall’ “illusione delle relazioni” (“Quanto mondo di cartapesta abbraccia chi vuol abbracciare il mondo!”). Carlo cerca una filosofia ma Giani lo mette in guardia: uno vuole analizzare il fondo di se stesso ed è attratto dall’abisso, percependosi come “una pasta sempre unita e sempre malleabile che riceve assai forme ma nessuna definitiva”, l’altro non può far risalire i suoi problemi più intimi (“devo rimandarli al fondo, affinché non turbino il mio ordine pratico”) ed è convinto che “lo sviluppo della vita non è mai il meglio desiderato, ma sempre il meglio vissuto e perciò possibile e unico possibile”.

Nei momenti in cui Carlo manifesta il suo scetticismo verso tutto e i dubbi sul proprio valore e sulla vita sociale che gli sembra solo “fumo”, Giani comunque insiste sulla necessità di non abbandonare mai la “vita di calda fede” e la ricerca della sincerità: “Interessa poco che noi sbagliamo nella meta che vogliamo perseguire, perché per il solo fatto che costantemente la facciamo oggetto dei nostri sforzi, la rendiamo vera”. L’uomo deve concentrarsi sulla sua attività spirituale: è questa “la direzione che non deve abbandonare sotto nessun pretesto e per nessun compromesso”.

Al centro dell’idealismo ‘militante’ degli Stuparich è sempre il singolo, il suo percorso personale e continuo di crescita: si tratta di “lavorare in intensità, senza perdersi, senza cercare più, o meglio: cercarsi più”. L’uomo di esperienza idealista è quello che “vive ogni suo momento, che non s’incrosta che costruisce dove ha abbattuto e, ricco dell’esperienza che chi ha costruito non deve contentarsi d’ammirare la sua costruzione riposando, rifonde le parti fuse e procede con la continua attività della pelle che perennemente si rinnova: l’uomo che galleggia sui rottami!”.

La partecipazione alla Prima guerra mondiale sarà l’esito estremo e tuttavia più coerente di questo idealismo ‘militante’, della tensione a riversare le idealità e le debolezze morali nella concretezza dell’esperienza, anche se ben presto la vita pesante nell’esercito ridefinirà ancora una volta le aspettative di Giani e Carlo: è il passaggio necessario per approdare a quella maturità che, nel caso di Giani, corrisponde alla conquista della scrittura, rispetto alla quale lo scambio epistolare con il fratello acquista un grande rilievo, documentando la reciproca evoluzione spirituale e il processo attraverso il quale un giovane scrittore costruisce il proprio punto di vista su se stesso e sulla realtà che lo circonda.