DELLA DISUGUAGLIANZA

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Dovremmo avere sotto gli occhi un dato statistico – almeno altrettanto importante del PIL (il prodotto interno lordo) – in grado di definire con la sintesi propria delle statistiche una sorta di tasso di disuguaglianza sociale, un dato cioè che renda manifesti con una sola occhiata il livello di (dis)uguaglianza esistente nella società, tanto a livello globale quanto a livello dei singoli stati, o anche a regioni di minore dimensione. Non è che tali dati non esistano (l’indice di Gini, per esempio, misura con una certa precisione il coefficiente di disuguaglianza sui redditi, ma è un dato parziale e criticabile, sul quale oltretutto non si intende concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica). Eppure si tratta di un dato fondamentale per capire le dimensioni del fenomeno, le linee di tendenza che metterebbero per esempio in grado di informare compiutamente l’elettorato circa la maggiore o minore volontà dei singoli governi di ridurre la forbice della disuguaglianza, mediante opportune politiche fiscali.

A livello globale una politica atta a consolidare a favore delle nazioni del nord il loro privilegio rispetto a quelle del sud del mondo è, con l’evidenza che la cronaca ci mette davanti quotidianamente, la ragione prima di un incremento esponenziale del disordine complessivo, recando con sé sottosviluppo, conflittualità sociale che sfocia anche in fenomeni eclatanti di terrorismo e, non da ultimo, un inarrestabile flusso migratorio con tutti i problemi che a ciò sono correlati.

Le disuguaglianze nella distribuzione del reddito, che si sommano a quelle relative alla ricchezza patrimoniale, segnatamente in periodi di crisi economica come quello ancora lungi dall’essere superato nel quale stiamo vivendo, esasperano le differenze nelle condizioni di vita di masse crescenti di persone anche nei paesi più ricchi, amplificando i fenomeni di frammentazione delle categorie sociali. Si pensi soltanto alla disparità tra diverse generazioni, com’è ad esempio da noi tra anziani e giovani, tra le quali si approfondisce sempre più il solco non solo nel nostro presente, ma, soprattutto, nelle aspettative per il prossimo futuro. La generazione di quelli che sono oggi attorno ai sessant’anni, quella del “baby boom”negli anni dal dopoguerra ai primi anni Sessanta gode ed ha goduto di condizioni migliori (oggi percepite come privilegiate) rispetto a quelle delle generazioni successive, esasperando una disuguaglianza di reddito ormai macroscopica.

Secondo dati recenti della Banca d’Italia, benché si stia arrestando la caduta di ricchezza cui assistevamo negli ultimi anni, risulta che il 5% dei nuclei famigliari detiene il 30% della ricchezza nazionale, mentre il reddito medio per famiglia è di 30.500 euro annui, pari quindi a circa 2.500 euro al mese, ma circa la metà delle famiglie italiane arriva al massimo di 2.100, collocandosi così sotto la media, mentre ben il 22,3% vive con un reddito annuo inferiore ai 9.600 euro.

Questi dati andrebbero fatti presenti a quanti propugnano una riduzione delle imposte dirette compensata da un incremento di quelle indirette (il sistema più pratico per una politica dei redditi che favorisce i più ricchi a scapito dei meno abbienti), o anche una riduzione delle aliquote Irpef o addirittura un’aliquota unica (peraltro impedita dalla Costituzione), tutte misure tendenti ad allargare la forbice della disuguaglianza.

In un quadro di questo genere, appaiono incongrue misure fiscali che premiano soltanto categorie più o meno ristrette di contribuenti. Tali per esempio i famosi 80 euro elargiti ad alcune categorie di lavoratori dipendenti – ma non agli autonomi o ai pensionati di reddito pari o inferiore – oppure il ventilato bonus di 500 euro “per la cultura”, elargito a tutti i diciottenni (quelli che cioè si recheranno a primavera a votare per la prima volta) indipendentemente dal fatto che siano giovani disoccupati in famiglie monoreddito di braccianti agricoli oppure studenti in scuole private di famiglie ad alto reddito. Oltre che incongrue, misure di tal fatta appaiono anche profondamente ingiuste.