Science+Fiction e la memoria del futuro

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di Stefano Crisafulli

 

Il Trieste science+fiction festival ha compiuto diciassette anni nell’anno 2017. Essendo un festival del cinema fantascientifico potremmo anche supporre che questa coincidenza non sia del tutto casuale. Per il momento limitiamoci a constatare, anche attraverso le parole dell’associazione Cappella Underground, responsabile della direzione artistica, che questo festival, andato in onda dal 31/10 al 5/11 al Rossetti e al Miela, è stato ‘la più estesa e importante raccolta su scala mondiale delle opere cinematografiche di genere sci-fi’. In effetti il direttore Daniele Terzoli e il suo staff si sono prodigati per portare a Trieste film da molti angoli del globo, anche se poi Europa e USA rimangono, comunque, prevalenti. Vanno segnalati inoltre: lo spazio per i cortometraggi, che sono aumentati di numero (una cinquantina), la bella sigla del festival firmata da Lorenzo Ceccotti, che rappresenta l’Ursus trasformato in un gigantesco robot in riparazione e il concerto di Stefano Bollani, pianista jazz che ha improvvisato sulle immagini di vecchi film muti di fantascienza.

Per quanto riguarda i film, la nostra attenzione si è fermata su una serie di opere che hanno tutte in comune il tema della memoria. Parliamo del film di apertura, Marjorie Prime del regista USA Michael Almereyda, di The man with the magic box del polacco Bodo Cox, che ha vinto il Premio Asteroide, e di Kati Kati di Mbithi Masya (Kenya).

Quanto la memoria sia essenziale per un essere umano, lo scopriamo quando, per ragioni fisiche (una malattia, ad esempio), non funziona più. I ricordi che si affastellano con il passare del tempo costituiscono per ognuno di noi un’architettura identitaria: senza di essi non riconosciamo chi ci sta intorno e non ci riconosciamo più. Per questo in Marjorie Prime un ologramma, copia quarantenne del marito, fa da supporto mnemonico a Marjorie, un’anziana signora di 86 anni che vive in una bellissima villa sul mare. Peccato che poi il ‘Prime’ entri in concorrenza con la figlia e si nutra dei ricordi frammentari e non sempre reali della stessa Marjorie. Il film di Almereyda, però, ha deluso perché inutilmente lento e poco differenziato dall’impianto teatrale da cui è tratto. Con The man with the magic box siamo, invece, in una Varsavia futura e grigia. Qui il protagonista è Adam, un addetto alle pulizie che vive in un condominio semideserto e in disuso. Alcune radio degli anni ’50 lo aiuteranno a fuggire da lì e a tornare indietro nel tempo. Ma la memoria, in questo caso, è solo un chip inserito nel corpo che può essere ritarato e modificato dai controllori al potere: alla fine Adam non saprà più nulla di ciò che gli è successo. E veniamo a Kati Kati, il film che ha convinto di più tra quelli selezionati: Kaleche è una giovane donna che si ritrova sola e senza più alcun ricordo in un villaggio turistico, Kati Kati, dove incontra altri come lei. Scopre subito di essere morta, ma ci metterà del tempo per capire cosa sia quel posto e perché si trovi lì. Il regista Mbithi Masya è riuscito a raccontare una storia onirica e inquietante con leggerezza e grande presa emotiva.