Le nuvole meravigliose di Franco Dugo

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Intervista al pittore goriziano

di Walter Chiereghin

 

Che ami tu dunque, straordinario straniero?  -Amo le nuvole… le nuvole che passano… laggiù… laggiù… le nuvole meravigliose!

 

  1. P. Baudelaire, Poemetti in prosa

 

Mi accoglie nel suo studio, un ampio monolocale al pianterreno con un altro piano di sopra, che si apre su un minuscolo giardino, un alto cipresso e le ortensie azzurrine, le “più belle di Gorizia”. Dentro, un ambiente tutto lavorativo, il torchio, gli attrezzi per incidere, i numerosi cataloghi e, al piano di sopra, cassettiere che contengono tesori di carta, le incisioni di una carriera ormai lunga e un dipinto appena abbozzato sul cavalletto, un uomo colto di spalle mentre guarda il mare e le nuvole che ancora non ci sono sulla tela, ma che immagino nel leit motiv di questa sua recente fase:“il cielo e il mare”, un tema che lo ha affascinato da tempo, anni di contemplazione di nuvole che si sono tradotti, a più riprese, in calcografie, disegni e dipinti. Osservo che la tela appena impostata sul cavalletto è comprensibile solo per tutto quanto d’altro è stato già dipinto, esposto… « Vorrei finirlo, dovrebbe essere una persona che osserva il mare, che immagina cosa c’è dall’altra parte: pensa a quanto è attuale un’immagine così, proprio in questi giorni, con quello che stiamo vivendo…». Penso ancora a Baudelaire: “Uomo libero, sempre ti sarà caro il mare…”. Scendiamo di sotto e ci sediamo a un piccolo tavolino. Sulla parete alle sue spalle una grande incisione, l’ Atelier, una copia della quale è stata acquistata dal Victoria and Albert Museum. Sotto di essa, un piccolo apparecchio per la lettura di CD.

 

Ascolti musica anche tu, come Sergio Altieri, mentre lavori?

Sempre. Poi qui, in questo studio così appartato, posso concentrarmi per ore senza disturbare nessuno. Molto spesso lavoro la notte, che è propizia alla concentrazione.

Vorrei iniziare dalla tua storia, partendo possibilmente dall’infanzia. Dai tuoi genitori, se ti pare: ho visto che hai alcune volte ritratto tuo padre, in divisa da carabiniere…

Ti parlerò dopo di mio padre, perché è una storia complessa. Mia madre lo ha sposato in seconde nozze. Lei era istriana, nata a Sanvincenti, nell’Istria centrale. Ha avuto tre figli dal primo marito, morto a causa di un singolare incidente, uno scontro in bicicletta col cognato, che era stato mandato da mia madre a cercarlo perché era in ritardo. Rimasta vedova con tre bambini da mantenere, era andata a Pola in cerca di lavoro, e fu lì che, nel ’38, incontrò mio padre.

Lui era a Pola per ragioni di servizio?

Sì, vi era stato trasferito dopo un periodo a Torino. Veniva da una famiglia siciliana, e la relazione con mia madre dovette rimanere in un primo tempo segreta, perché come forse saprai allora i militari dell’Arma dovevano avere il gradimento del comando per accasarsi e, quando alla fine lo ottenne, dovette cambiare sede: gli fu offerto un posto a Torino oppure a Gorizia e lui, sfortunatamente, scelse Gorizia. Con mia madre ebbe tre figli, io sono nato nel ’41 a Grgar, oggi oltre il confine, a pochissimi chilometri da dove ci troviamo in questo momento. Fu portato via nel ’45 dai partigiani del IX Corpus di Tito, assieme a diciotto suoi colleghi, e non se ne seppe più niente. Di lui e degli altri.

Tu avevi quattro anni, allora. Si può dire che quasi non l’hai conosciuto. Ne hai qualche ricordo?

Non saprei, credo di ricordare una brevissima sequenza, di lui a letto che alzava la coperta per farmi posto al suo fianco; un piccolo gesto di affettuosa accoglienza, che sono in dubbio se ascrivere a una memoria reale o invece a un desiderio inappagato dell’infanzia. Di fatto, mia madre ha sempre risposto con fatica alle mie domande – era forse troppo doloroso parlarne – per cui ho creduto di aver allontanato la sua figura…

Non direi: ho visto alcune tue grafiche in cui compare lui, in uniforme, e anche nella tua serie sul furto della Gioconda i carabinieri hanno un ruolo di primo piano.

I ritratti che ho fatto di lui e di mia madre, ricavandoli da vecchie fotografie, sono stati eseguiti in età adulta, quando avevo iniziato a farmi un’idea meno approssimativa di lui. Avevo letto anche alcune pagine di una sorta di diario che lui teneva durante la guerra dal quale emerge un sentimento semplice e spontaneo di fedeltà all’Arma, ma proprio niente a che vedere con l’ideologia del regime fascista. Per me, che militavo dal ’63 nel PCI, era un dettaglio non inessenziale. Si può dire che ho imparato a conoscerlo attraverso i ritratti che gli ho fatto negli ultimi anni Ottanta, partendo da piccole stampe fotografiche. Quel lavoro mi portò riscoprire quell’uomo che non avevo mai conosciuto, ed è stato, al contempo, un viaggio attorno a me stesso.

Sono stati anni terribili qui da noi, quelli del dopoguerra, che si sono protratti per troppo tempo, a causa del confine che passa a pochi metri da qui, la violenza, gli scontri anche fisici, persino le uccisioni hanno inciso profondamente nelle vite di moltissime famiglie.

La mia non fece certo eccezione. Un mio fratellastro, Bruno, aveva voluto arruolarsi appena diciassettenne, nella Milizia e fu gravemente ferito al ventre dai partigiani, mentre era di guardia al Ponte di Piuma. Si salvò, ma rimase fascista per tutta la vita. Poi, tra l’altro, fu infermiere di Umberto Saba a Villa San Giusto, negli ultimi mesi di vita del poeta, circostanza curiosa che mi ha sempre colpito.

Vuoi sabotarmi l’intervista o preferisci che iniziamo a parlare anche di pittura?

Certo! Sei qui per questo, no?

Allora puoi dirmi com’è cominciata, tra te e le arti figurative?

Di preciso non lo so, ma quel che è certo è che è iniziata molto presto. Fin da bambino avevo una certa evidente inclinazione per il disegno: mi ricordo alle elementari, quando mi facevano dipingere con i gessi colorati alla lavagna; una modalità di esprimermi che non mi ha più abbandonato. Più tardi, ricordo che alle medie avevo a disposizione una scatolina di piccoli pastelli della Fila, in una confezione da sei pezzi. Giotto si chiamavano, li ricorderai anche tu…

Certo!

Ecco: c’era un mio compagno che aveva ricevuto in regalo una scatola di metallo che conteneva invece quarantotto matite colorate, lunghe, della Caran d’Ache; la conservava, senza mai adoperarne i pastelli e devo confessare di aver provato acuta un’invidia per quella meraviglia, al punto che mai più, anche in seguito, ho adoperato i prodotti di quella casa.

Dimmi qualcosa della tua formazione.

Che vuoi che dica? La mia “formazione”, come la chiami tu, è stata condizionata da un dato di partenza, cioè dal fatto che fossimo una famiglia povera, il che, in qualche misura, è all’origine della decisione di mia madre di farmi entrare in seminario, una scelta che vissi come imposizione e che alimentò in me un forte sentimento di ribellione..

Che scuole facesti in seminario?

Le tre medie e la quarta ginnasio. Credo che mi ci tenessero soltanto perché disegnavo molto bene e cantavo con una bella voce intonata, cosa che tornava utile per i cori e i responsorii liturgici. Una volta uscito di là, avrei voluto iscrivermi all’istituto d’arte, ma mia madre, che mi voleva ragioniere e sognava per me un posto da bancario, fu irremovibile e così feci, senza il minimo entusiasmo, l’istituto tecnico commerciale.

In ambito artistico sei dunque un assoluto autodidatta?

Sì, mio malgrado. Devo dire che ho sempre sognato di “andare a bottega”, come si faceva un tempo e più volte ho tentato di darmi una formazione, almeno di elementi tecnici di base, chiedendo anche a qualcuno che era più esperto di me di darmi qualche informazione, ma mi sono stato respinto, anche per gelosia professionale. Nemmeno in ambito calcografico mi è stato facile confrontarmi con persone più qualificate di me, se non tardivamente, quando , se non tardivamente, quando mi rivolsi alla stamperia udinese di Albicocco e Santini. Con Albicocco collaboro ancora per la produzione di grafiche di più grande formato, che eccedono la misura che mi è consentita dalle dimensioni del mio torchio.

Qua, al piano di sopra, mi hai mostrato il ritratto del tuo amico Dario, del ’62, e altri due oli della tua preistoria, e già quelle prime prove documentano una mano che è difficile attribuire a un principiante assoluto.

Certo, come già ti ho detto, c’era indubbiamente una mia predisposizione “naturale”, che tuttavia non basta: mi sarei risparmiato molte fatiche e innumerevoli errori se avessi avuto una guida cui avrei potuto attingere per sapere una quantità di cose e acquisire sicurezze tecniche che ho dovuto invece cercare per conto mio.

Ciò nonostante, sei diventato tu stesso un maestro per altri. Com’è andata la tua esperienza di didatta all’Accademia di Venezia e poi a quella fiorentina?

Soggettivamente, devo dire che è stata un’esperienza bivalente, molto positiva e appagante nel rapporto con gli allievi, assai meno in quello con i colleghi, che non apprezzavano proprio la mia formazione di autodidatta, mentre loro generalmente provenivano da regolari studi accademici. Insegnai Tecniche dell’incisione a Venezia dal 1989 al 1995 e poi nel 1996 a Firenze. Sono stato convocato presso l’Accademia tramite una telefonata del direttore, e in un primo tempo rifiutai l’incarico, che poi invece accettai, dopo le sue risentite rimostranze e una mia visita presso il suo prestigioso istituto.

Nell’89, comunque, eri già un artista affermato, avevi esposto molto anche all’estero, in particolare a rassegne internazionali di grafica. La tua attività espositiva data da una prima mostra goriziana alla Galleria Il Torchio, nel ’72, giusto dieci anni dopo quel tuo primo ritratto di Dario. In quel decennio sei maturato anche come artista?

Soltanto nell’ultimo periodo, intorno ai miei trent’anni, quando ho allestito uno studio e ho cominciato a pensare la mia vita strettamente legata alla mia attività nel campo delle arti visive. Prima, tuttavia, ritengo di aver fatto cose che hanno contribuito fortemente a farmi diventare quello che sono: il lavoro, la boxe, il teatro, la scenografia, la militanza politica sono tutte esperienze che ho vissuto con intensità, spesso con l’entusiasmo dei vent’anni. Quasi tutto ciò, naturalmente, confluisce nel mio lavoro artistico.

Quel tuo lavoro è connotato da un’adesione a forme realistiche, con qualche concessione al surreale negli accostamenti tra immagini comunque naturalistiche, com’è stato per esempio nel ciclo dei Corvi. Cosa intendevi esprimere con quella vicinanza tra la figura umana e quella degli uccelli?

I corvi di quel ciclo sono rappresentati in forme antropomorfe, e sono una chiara allegoria del diverso, quello che è attorno a noi e quello che è anche dentro di noi. È una sfida da vincere per esorcizzare la paura e repulsione – ma anche il fascino – per ciò che percepiamo come estraneo e per ciò stesso come antagonista. In seguito, la visita a Torino del Museo Cesare Lombroso è stata l’origine di incisioni e disegni, del ciclo delle Identificazioni, ispiratomi dalla volontà di rappresentare con i miei mezzi le immagini che avevo visto là, foto segnaletiche di piccoli delinquenti, come pure di disgraziati affetti da malformazioni, che venivano denudati per ragioni di studio e in tal modo privati della loro dignità di persone. Persino il ciclo della Gioconda ha qualcosa in comune con quanto ho visto in quel museo, dal momento che la narrazione grafica della storia del furto del capolavoro di Leonardo parte proprio dalle foto segnaletiche, contrapposte in quelle opere al sorriso ineffabile di Monna Lisa.

Il ritratto è un ambito nel quale ti sei lungamente esercitato e continui ad esercitarti: ti affascina molto penetrare nella personalità di un soggetto riproducendone il volto…

Il volto e il corpo, che almeno in parte è quasi sempre presente nei miei ritratti, dato che l’atteggiamento e la postura sono parte della rappresentazione di sé che ciascuno offre a chi lo guarda. L’esercitarsi sui tratti somatici di una persona significa in qualche modo penetrarne l’essenza, entrare in un rapporto quasi dialettico con lei e creare quindi un’immagine del soggetto da presentare a terzi per allargare ad altri la conoscenza acquisita. Di norma non eseguo mai ritratti su commissione, devo essere attirato dal soggetto per ragioni mie, che talora sfuggono persino a me. Se prendi per esempio i miei ritratti dei pugili, derivano sicuramente dall’aver praticato la boxe negli anni giovanili. Sono i ritratti di pugili per lo più dilettanti, non dei grandi campioni, gente che saliva sul ring per prendere qualche soldo, magari per arrotondare i proventi del lavoro da manovale. Sono cose di questo genere che mi fanno entrare in empatia con i miei soggetti.

Questo tuo indugiare su volti e situazioni di persone semplici ha un corrispettivo “colto” nei ritratti di alcuni grandi personaggi – penso a Rembrandt, a Cézanne, a Svevo, a Joyce, a Pasolini – che evidentemente ti hanno intrigato molto. Quanto conta lo studio dei maestri e le tue letture nel tuo lavoro?

Conta moltissimo e non è presente solo nei ritratti, ma anche in altre citazioni che affiorano qua e là: prendi Monna Lisa, per esempio, che ha un suo contraltare nella figura scultorea di Salomé, per la quale ho preso in prestito l’immagine di una modella di Robert Mapplethorpe, che anche lei, guarda caso, si chiamava Lisa, Lisa Lyon, con un corpo da culturista. Oppure per la Canestra di frutta di Caravaggio, che compare in alcune altre opere come una citazione non esplicitata se non dalla notorietà del dipinto conservato all’Ambrosiana. In questi ed altri casi l’omaggio che cerco di tributare ai maestri sottintende anche una sorta di gratitudine di quanto da essi ho imparato. Pensa soprattutto a Rembrandt, per me il più grande incisore di tutti i tempi, del quale ho fatto con amore tanti ritratti. Pensa a Dűrer, cui ho dedicato un intero ciclo di disegni e di incisioni. La sua incisione Il cavaliere, la morte e il diavolo ha colpito anche Sciascia, che ne ha fatto il fulcro di un suo bel romanzo breve.

Infatti hai ritratto lo scrittore siciliano assieme a una copia dell’incisione di Dűrer.

Sì. La creazione artistica, sia quella figurativa che quella letteraria si toccano assai più spesso di quanto si pensi, talvolta specchiandosi, in altri casi sovrapponendosi. Dagli scrittori e dai poeti ho imparato molto. La lettura di testi quali quelli di Svevo, di Kafka, di Joyce, di tanti altri che, in misura diversa, mi hanno fatto quello che sono. Non credo che l’uomo sia solo quello che mangia: sono più propenso a ritenere che sia soprattutto quello che legge, quello che vede, quello che è capace di ascoltare.

 

Quando me ne vado è ormai pomeriggio inoltrato e vuole accompagnarmi alla macchina portando lui in uno scatolone una quantità di magnifici cataloghi di cui ha voluto farmi omaggio, assieme a una piccola incisione, una prova d’artista, di un’opera della quale ho avuto modo di scrivere presentandola assieme ad altre tre in un prezioso libro d’arte. Avviato il motore compio un inventario mentale delle cose che non gli ho chiesto: i suoi paesaggi, l’uomo dei castagni, le nuvole meravigliose.

Mi conforta pensare che non mancheranno ulteriori occasioni, perché ho inaugurato con lui una bella amicizia. Come quegli altri due nell’ultima scena di Casablanca