L’eresia di Orfeo

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L’Orfeo di Monteverdi a fondamento del genere melodrammatico

di Luigi Cataldi

 

Di tutte le incarnazioni del mito di Orfeo quella messa in scena da Striggio e Monteverdi a Mantova nel 1607 è di certo la più misteriosa. Fu opera celeberrima all’epoca e lo è ancora oggi, perché fondò (insieme all’Euridice di Peri e Caccini, Firenze 1600) il genere melodrammatico. Eppure fu allestita in un’«angusta» sala di palazzo ducale e non in teatro. Gli autori furono d’eccezione (Monteverdi, il più grande dei musicisti dell’epoca; Alessandro Striggio, scrittore di valore e ministro fra i più importanti dei Gonzaga) e straordinari gli interpreti (primo fra tutti Francesco Rasi, virtuoso impareggiabile, chiesto in prestito alla corte medicea per il ruolo di protagonista), ma il pubblico fu ristrettissimo, composto dagli accademici Invaghiti, e la rappresentazione, il 24 febbraio 1607, unica (anche se ci fu una non prevista replica la settimana successiva per le «dame della città»). Per l’occasione si stampò un libretto con finale funesto, ma tre anni dopo Monteverdi pubblicò a Venezia la partitura, nella quale Orfeo ascende al cielo per grazia di Apollo. Quale dei due finali fu dunque cantato? Quello tragico di cui non è restata traccia o l’altro che sopravvive?

Il melodramma rielabora il mito classico (che nella patria dei Gonzaga aveva avuto un illustre precedente nella Fabula d’Orfeo di Angelo Poliziano del 1480), ma è di certo opera profondamente cristiana, post-tridentina, si è sempre detto, vista l’epoca in cui andò in scena. Eppure Mantova, solo una generazione prima, era una «città gravemente macchiata d’eresia», come scrive Scipione Rebiba, prelato del Sant’uffizio. Era stata infatti uno dei centri più importanti dell’evangelismo italiano all’epoca del cardinale Ercole Gonzaga (1537-1563) e con Mantova, attraverso Giulia Gonzaga, che ne era stata seguace e collaboratrice, aveva avuto stretti contatti anche Juan de Valdés, l’esule spagnolo che più di ogni altro elaborò i principi alla cosiddetta Riforma italiana. Poi una serie di ferocissimi processi inquisitoriali negli anni 1567-1568, conclusisi con roghi, abiure (che non risparmiarono neppure gli alti dignitari della corte, come l’architetto Giovanni Battista Bertani e il segretario personale del duca Endimio Calandra) e dure reclusioni, sradicarono ogni germoglio eretico. All’epoca dell’Orfeo tutto ciò era un ricordo del passato, ma il controllo dell’Inquisizione su ogni iniziativa pubblica era ancora presente e tangibile. Eppure il testo, se letto da una certa prospettiva, rivela forti suggestioni valdesiane.

La prima sta nel contrasto fra luce e buio. Il sole domina per tutta la prima parte dell’opera, fino alla morte di Euridice. Lo invoca Orfeo nell’inno Rosa del ciel, illumina le danze dei pastori. Allegoricamente è la «luce del ciel», la grazia divina (come nella Commedia dantesca) e si identifica con Euridice. Le «selve» e «piagge» sono «fatte beate» da lei, quel sole che illumina le notti di Orfeo. E la luce infatti non sopravvive a Euridice, la cui morte assume caratteri apocalittici e universali: a Orfeo porta la disperazione, alla terra la desolazione.

Simile è, nell’Alfabeto cristiano di Valdés, la profondissima notte che avvolge la terra dopo la cacciata dal paradiso terrestre di Adamo ed Eva. Un buio non solo fisico, ma anche morale, retaggio del peccato originale, che ci rende ciechi, ci impedisce di vedere la via della salvezza e ci lascia perduti «appresso le cose che dilettano il sentimento». Ciechi noi, «falso», «ingannatore», «vano», «nemico di Dio», «incostante», il mondo, nel quale, secondo Valdés, è possibile intravedere una sola luce: la fede in Dio attraverso Cristo. E Cristo non può essere conosciuto «per lume naturale né per altra industria humana», al contrario «bisogna speciale gratia da Dio». Saranno riconciliati con dio, dice nel Catechismo, solo coloro che fanno come Abramo, che «credette alle promesse di Dio senza vedere in che fondare la fede sua secondo il discorso della prudentia humana».

La morte di Euridice evoca la cacciata di Adamo dal paradiso terrestre; il viaggio di Orfeo agli inferi per ritrovarla, è analogo al cammino dell’uomo nel buio della terra. Ritrovare Euridice significa ritrovare la grazia di Dio, ma per questo non si deve fare affidamento sulle proprie qualità, ma si deve riconoscere la propria fragilità e la propria fallibilità. Anzi quanto più grandi sono le virtù umane tanto più indurranno all’errore. Orfeo confida in sé solo («Meco trarrotti a riveder le stelle», dice), nei propri mezzi (la «cetra onnipotente»), è schiavo dei propri sentimenti (l’amore per l’Euridice terrena). Eccolo, nel terzo atto, levare un canto al limite delle capacità umane per indurre Caronte a lasciarlo passare (Possente spirto). È una delle pagine più alte dell’opera e richiese a Rasi-Orfeo un virtuosismo estremo. Caronte si addormenta. Gli spiriti infernali esultano, fuorviati, nel coro di fine atto: Orfeo, dicono, sta per compiere un’impresa più grande di quella di Giasone, che per primo solcò il mare, di Dedalo, primo aviatore, e di Prometeo, che strappò agli dei il fuoco.

Il quarto è l’atto della caduta. Ovunque nell’Ade regna l’errore. Proserpina è lieta di aver perso la luce del sole per Plutone, che a sua volta si augura che lei non desideri mai più «celeste diletto». Orfeo crede di aver vinto la sfida: ritiene che la sua cetra sia capace di piegare «ogni indurata mente». Ottiene di riavere Euridice a patto di non voltarsi a guardarla, ma egli non è in grado di fare come Abramo, di credere «senza vedere». Quando si volta è perché non crede più che Euridice sia con lui: ha perso la luce della fede. Così (cantano gli spiriti nel coro di fine atto) «nebbia d’affetto umano» oscura il raggio della «celeste virtù» e «l’uom cieco a cieco fin conduce».

Ma nell’atto quinto la caduta apre la via al riscatto. Tornato solo, desolato, incapace di commuovere col canto, Orfeo invoca la perduta Euridice, cioè quella celeste e ripudia le donne. L’invettiva, che nel mito (in Poliziano soprattutto) ha tratti fortemente misogini, qui ha piuttosto carattere allegorico. Il cielo ha concesso a Euridice «tutte le grazie sue». Ogni altra donna ne è rimasta priva e si è ridotta a «vil femina». Si tratta però di un femminile universale: l’intero genere umano ha perduto la grazia con la scomparsa di Euridice. È il mondo terreno che egli così ripudia. Non basta. Per la salvezza, dice Valdes, «bisogna speciale gratia da Dio». E la grazia giunge con Apollo che solleva Orfeo al cielo: «Così grazia in ciel impetra / Chi qua giù provò l’inferno», sentenzia il coro finale.

Un simile testo non poteva certo essere approvato dalla censura. Da qui la necessità della dissimulazione. Il finale apollineo della partitura, unito ai cori di fine atto, avrebbe facilmente svelato il significato profondo dell’opera. Il finale del libretto (forse mai musicato, né rappresentato), in cui Orfeo è dilaniato dalle baccanti, riconduce al mito classico. È probabile che Striggio lo abbia composto solo per depistare i censori e, in effetti, in questa forma il libretto ottenne il permesso per la stampa. Anche la partitura è incompleta. Vi è omessa una parte dei cori finali dei primi quattro atti, nei quali appaiono più evidenti le interpretazioni allegoriche del mito. Incompleti e fuorvianti per necessità di dissimulazione, libretto e partitura compongono insieme un unico testo completo.

Anche il luogo della rappresentazione, angusto e nel cuore del palazzo ducale, si spiega con la necessità di essere prudenti: poté partecipare all’evento un pubblico scelto e ristrettissimo, ma capace di comprendere le allusioni del testo. Se le cose stanno così, Orfeo fu un’eresia rappresentata «con licenza de’ Superiori», come è scritto sul libretto.

 

1.:

Bernardo Strozzi

Claudio Monteverdi

olio su tela, 1630 circa

Innsbruch, Tiroler

Landesmuseum Ferdinandeum