Libri: necessità di un ordine impossibile

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Non esiste un rapporto tra la quantità dei libri che si possiede e quella confidenza con il sapere che chiamiamo cultura

di Francesco Carbone

 

«I libri obbligatori non esistono.»

(Giorgio Manganelli, Concupiscenza libraria, Adelphi 2020)

 

Non essendo api, castori o pinguini ma solo uomini, non avremo mai la gioia – o il lutto – di una calma definitiva, della pace perpetua di un ordine che ci inscriva pacificati nel Cosmo. Per nostra natura dissonanti, fuori sesto e misura, da – come diceva Nietzsche – animali non stabilizzati, produrremo solo ordini provvisori, inquieti, incompletabili, destinati al disastro e al caos: una perenne vocazione non all’ecosistema ma alla torre di Babele, alla confusione delle nostre lingue megalomani.

Cosa possa essere un ordine umano, lo si legge bene in Come ordinare una biblioteca (Adelphi, 2020), il cui saggio iniziale dà il titolo alla più recente operetta di Roberto Calasso: uno di quei suoi momenti di scrittura sapiente, rapsodica e rilassata con cui intercala, con leggerezza tiepolesca, i tempi della sua opera grande, arrivata nel 2019 alla decima parte con Il libro di tutti i libri: il numero 700 della Biblioteca Adelphi.

Alle stazioni di quest’opera grande e indefinibile, Calasso, come un musicista che alterna sinfonie mahleriane con divertimenti mozartiani, intercala nella Piccola Biblioteca Adelphi volumetti tutti dalla copertina celeste, e quindi intuibili a loro volta come parti di un unico discorso, in cui il leitmotiv è la vocazione dell’editore e l’universo dei libri come la monade che rispecchia all’infinto se stesso e il multiverso del Mondo: Cento lettere a uno sconosciuto (2003), La follia che viene dalle Ninfe (2005), L’impronta dell’editore (2013) e quest’ultimo Come ordinare una biblioteca.

Proprio perché anche una biblioteca è un tentativo di ordine, Calasso mostra come l’acquisto e la disposizione dei libri è il caso di un «tema altamente metafisico», destinato a soluzioni instabili e contraddittorie: «un ordine perfetto è impossibile, semplicemente perché c’è l’entropia», e cioè la tendenza di ogni cosa alla confusione e alla morte. Se presa sul serio – il che vorrà dire anche ironicamente -, la questione ci avventura su un crinale periglioso, obbligandoci a cercare «una via» tra ordine possibile e caos incombente: «perché senza ordine non si vive. Con i libri, come per tutto…», e quest’ordine sarà provvisorio e via via variato nel tempo, «semplicemente perché la biblioteca è un organismo in perenne movimento».

Si pensi alla sola «regola aurea» che ci viene proposta: «quella del buon vicino, formulata da Aby Warburg, secondo cui nella biblioteca perfetta, quando si cerca un certo libro, si finisce per prendere quello che gli sta accanto e che si rivelerà essere ancora più utile di quello che cercavamo». Quale sia il buon vicino è il primo giudizio dell’ordinatore di libri il quale azzarderà, innanzi tutto per sé stesso, quale possa essere il miglior compagno, poniamo, dell’Adelchi di Manzoni. Il buon vicino potrebbe essere scelto, per esempio, nel modo in cui Dante accoppia nella Commedia dannati o santi: nel limbo Virgilio e Platone con Averroè, in paradiso Tommaso d’Aquino con Sigieri di Brabante e Bonaventura da Bagnoregio, che pure lo condannò. Come nel caso felicissimo della biblioteca di Warburg, che riproduce «l’intelaiatura del pensiero di Warburg», la biblioteca è dunque un autoritratto del suo… non oseremo la parola padrone.

Viene in mente intanto, di Martin Heidegger, il saggio sull’Origine dell’opera d’arte in Sentieri interrotti e la conferenza su Costruire, abitare, pensare, nei quali si pone la differenza tra un posto ancora indifferenziato e il suo farsi luogo per l’intervento sapiente dell’uomo: così come un ponte fa di uno spazio ancora generico un luogo, armonizzando il paesaggio attorno al suo centro, così come un piccolo tempio greco in una valle, situato con l’esattezza cosmica con cui un gatto sa scegliere il suo posto, il creatore della biblioteca farà, già di una sola stanza, un luogo: «l’unità di quelle vie e di quei rapporti in cui nascita e morte, infelicità e fortuna, vittoria e sconfitta, sopravvivenza e rovina delineano la forma e il corso dell’essere umano nel suo destino» (Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte). Potrebbe essere una vera biblioteca meno di questo?

La semplice disposizione dei propri libri sarà quindi, come scrisse Borges, il «primo esercizio del critico», il cui compito è, attraverso lo studio delle opere di altri, creare sé stesso (Oscar Wilde, Prefazione al Ritratto di Dorian Gray). Forse così stiamo trovando la parola per definire l’uomo che crea la sua biblioteca: Thomas Stearns Eliot sentiva «che tutta la letteratura d’Europa, dopo Omero, e con essa tutta la letteratura del nostro paese, ha una simultanea esistenza e forma un ordine simultaneo», e Walter Benjamin pensava a un’opera fatta di sole citazioni, di cui indubitabilmente lui sarebbe stato l’autore: essendo dunque una biblioteca la raccolta non casuale di alcune parti di quel libro universale fatto da tutti i libri (avrà del senno la sua follia), il creatore di una biblioteca potrà essere definito solo come il suo autore.

Per l’autore della biblioteca, Calasso azzarda l’intrecciarsi di regole d’ordine plurali, proponendo un criterio «al tempo stesso sincronico e diacronico: geologico (per strati successivi), storico (per fasi, incapricciamenti), funzionale (connesso all’uso quotidiano in un certo momento), macchinale (alfabetico, linguistico, tematico)»: per «un ordine a chiazze, molto vicino al caos», che costituirà «un nuovo e unico luogo psichico»: la selva morale e spirituale del suo autore.

Il lettore autore della sua biblioteca, e cioè quel tipo di persona che chissà se davvero si stia facendo rara, impegnato nell’«attività ininterrotta» che è leggere, conosce l’arte di «comprare molti libri che non si leggono subito»; smaliziato dalla sua cura, saprà scegliere la giusta edizione di un classico, compulserà cataloghi, perlustrerà bancarelle dove giacciono inerti i frammenti di biblioteche smembrate alla morte del suo creatore. Leggerà in ogni caso seguendo «un filo» tutto suo, mischiando classici, gialli, dizionari, saggi, romanzi, poemi… Creerà così via via quel luogo intimo che solo faceva sentire Machiavelli, negletto e ingaglioffito dalla taverna e dall’esilio, libero da ogni affanno: «…e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro» (lettera a Francesco Vettori, 10 dicembre 1513).

Perché non è vero che i libri come pappagalli «comunicano una cosa sola e sempre la stessa» (Platone, Fedro), ma con le loro parole immutabili offrono specchi sempre diversi al suo instabile lettore. Il traffico con la morte che ha ogni lettore è infatti un traffico da medium.

Che di biblioteche si possa impazzire, di una pazzia che potrebbe portarci molto vicini a noi stessi, lo mostra il destino di don Chisciotte, e delle sue due varianti di Flaubert: Madame Bovary ammalata di romanzetti rosa e Bouvard e Pécuchet, presto sperduti nella selva di un fantasticato sapere enciclopedico. Soprattutto, si è sempre sospettato che i romanzi possano avere effetti psicopatogeni: «Il piacere che forse essi offrono lo si paga a carissimo prezzo: essi finiscono per guastare anche il carattere più solido. Ci s’abitua ad immedesimarsi in chicchessia. Si prende gusto al continuo mutare delle situazioni. Ci si identifica con i personaggi che piacciono di più. Si arriva a capire qualunque atteggiamento. Ci si lascia guidare docilmente verso le mete altrui e si perdono di vista le proprie» (Elias Canetti, Auto da fé). In questi casi, si sarà realizzata la profezia che si legge nel Fedro di Platone, di uomini «imbottiti di opinioni invece che sapienti».

L’amabile lettore sarà capace invece, proprio per obbedienza al suo demone, di drastici no, di idiosincrasie che lo definiscono tanto quanto le sue passioni. Sarà piuttosto irresponsabile rispetto al mondo ma il miglior giardiniere della sua biblioteca. L’amabile lettore sarà un eretico, un solitario che non ha paura: umorale e geloso, difenderà i suoi libri dall’invasione di opere non necessarie, fossero anche capisaldi del Canone Occidentale, concetto questo da tenere sempre in sospetto, fino alla prova contraria della propria lettura. Alcuni libri saranno letti come Il libro di sabbia di Borges: qualcosa che non si potrebbe mai chiudere, altri a pezzi senza mai finirli, altri ancora resteranno intonsi, ma non per questo meno presenti nella biblioteca. Alfieri gettò via il Galateo di Giovanni Della Casa, violentemente respinto dalle sue prime cinque parole: «Con ciò sia cosa che»… Sarà al contrario un godimento affatto intimo e incomunicabile trovare un libro, un autore, che, sconosciuto ai più, si riveli per il lettore essenziale: l’inizio di una passione ardente come solo certi amori clandestini.

L’amabile lettore potrebbe avere cinque versioni dell’Odissea o neppure una: «saranno altri nomi a compiere lo stesso ufficio» (Herman Hesse, Una biblioteca della letteratura universale, Adelphi 1979). Essendo la biblioteca un luogo infinibile mentre la vita di un uomo è ben breve (soprattutto quando ha scoperto in sé l’amore del leggere), che vi siano libri non letti è nella natura stessa della biblioteca: «i libri sono pazienti» (Giorgio Manganelli, Discorso dell’ombra e dello stemma) anche se a loro volta non eterni: da quando la carta è ottenuta dal legno, non hanno più di ottanta anni di vita: una vita umana.

L’autore della biblioteca, leggendo, userà la matita (raccomandazione che si trova uguale in Umberto Eco, Come si fa una tesi di laurea e in Manganelli, Discorso dell’ombra e dello stemma) e mai la penna per sottolineare, lasciare glosse ai bordi, annotazioni sulle sguardie (benedetti quegli editori, come Laterza, che lasciano apposta pagine bianche in fondo ai loro saggi). Non lascerà un libro letto senza la traccia di quel terzo occhio che è il suo lapis. La stessa sottolineatura sarà un’arte, che richiederà discrezione e senso del limite, per non ritrovarsi a un libro talmente segnato da essersi perso, «massime quando i segni sono molti ed eguali» (Gaetano Volpi, Del furore d’aver libri, prima ed. 1757).

Non esiste un rapporto tra la quantità dei libri che si possiede e quella confidenza con il sapere che chiamiamo cultura: Petrarca, il primo possessore moderno di una biblioteca privata, possedeva trecento libri, e ne sapeva più di tutti noi; Nietzsche girovago leggeva compendi: «ci sono dei lettori che in tutta la vita se la cavano con una dozzina di libri, e che pure sono veri lettori. E ce ne sono altri che hanno divorato tutto e che sanno parlare di tutto, eppure i loro sforzi sono stati vani» (Hermann Hesse, op. cit.). La biblioteca e la lettura saranno per l’amabile lettore come un koan per la filosofia zen: un enigma la cui soluzione impossibile potrebbe coincidere con l’esistenza, o semplicemente non darsi mai. Goethe confidò a Eckermann che gli occorse tutta la vita per imparare a leggere.

Quando si legge il libro giusto, tutto torna: «Sono seduto e leggo un poeta. […] Sebbene io sia povero. Sebbene il vestito che indosso ogni giorno incominci a essere liso in certi punti, sebbene si possa aver molto da ridire sulle mie scarpe.» (Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, Garzanti 174).

La biblioteca, luogo eminentemente psichico, sarà mobile come un caleidoscopio, disponendo punti focali via via cangianti. Come uno spaziotempo specifico, che si curva secondo i corpi che lo abitano, la biblioteca si fletterà sugli interessi di quel certo momento del lettore: farà protendere certi libri verso di lui, e incavarsi altri: respiri che obbediscono al momento.

Quello che conta è che accada questo: «quando incomincio a leggere sto proprio altrove, sto nel testo, io mi meraviglio e devo colpevolmente ammettere di essere davvero stato in un sogno, in un mondo più bello, nel cuore stesso della verità» (Bohumil Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa), qualunque incomunicabile cosa possa voler dire verità.

 

 

 

Roberto Calasso

Come ordinare una biblioteca

Adelphi, Milano 2020

  1. 127, euro 14,00