Lisetta Carmi, un animo indipendente

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Osteggiata in Italia per il suo orientamento politico, concepiva la fotografia quale «strumento per cercare la verità»

di Paolo Cartagine

 

Un libro fotografico già pronto che nessuno voleva pubblicare. Periodo: metà anni ’60. Luogo delle riprese: Genova, case dell’ex ghetto ebraico. Tema: i travestiti.

Gli editori temevano infatti che le foto scattate da Lisetta Carmi a quella comunità – dove era stata accettata per il suo sentimento di vicinanza umana privo del distacco delle barriere difensive interiori – venissero percepite dall’opinione pubblica e dai rigori della censura quale offesa al comune senso del pudore che permeava l’Italia dell’epoca. Solo nel ’72 la casa editrice Essedi, appositamente fondata da Sergio Donnabella, stampò il volume I travestiti. Oggi il libro è un oggetto cult.

Nessuno in Italia prima di lei aveva pensato di puntare l’obiettivo verso questa parte di società marginalizzata alla quale invece – com’era suo costante atteggiamento nei confronti delle persone con cui veniva in contatto – Carmi aveva rivolto lo sguardo con grande rispetto e delicatezza, senza preconcetti o ipocrisia, né con volontà di sensazionalismo alcuno. Insomma anche in quell’occasione non era stata una fotografa che mirava esclusivamente, e cinicamente, al risultato vendibile.

Nata a Genova nel 1924 da una famiglia benestante di origine ebraica, Annalisa (poi Lisetta) Carmi, espulsa dal ginnasio nel ’38, seguì la sua famiglia in Svizzera per sfuggire alle persecuzioni razziali. Proseguiti gli studi di pianoforte a Zurigo, si diplomò nel ’46 al Conservatorio di Milano e intraprese da subito la carriera di concertista in Italia e all’estero con un repertorio innovativo comprendente brani di musicisti italiani del Novecento, ricevendo unanimi consensi.

Era destinata al successo. Se non che tra il giugno e il luglio del ’60 a Genova (come pure in altre città italiane) avvennero cruenti scontri di piazza legati al corteo di protesta che era stato indetto dalla Camera del Lavoro contro la convocazione del congresso del Movimento Sociale Italiano nel capoluogo ligure, città medaglia d’oro alla Resistenza. Carmi sentì di dover partecipare a quelle manifestazioni ma il suo maestro glielo proibì perché troppo rischioso: «Ricordo benissimo di avergli risposto che se le mie mani erano più importanti del resto dell’umanità avrei smesso di suonare il pianoforte».

Una svolta decisiva, la prima, frutto della sua radicalità interiore perché aveva bisogno di sentirsi più vicina agli ideali di indipendenza e libertà, e soppiantare la ripetizione con la novità. Ormai la strada della musica non l’avrebbe più portata da alcuna parte. Risoluta dunque a non rinunciare alle proprie idee, andò in Puglia con l’amico musicologo Leo Levi (intenzionato a registrare i canti della comunità ebraica di San Nicandro Garganico) per fotografare l’esperienza di quel viaggio. Un momento oltremodo soddisfacente, tanto che decise consapevolmente di intraprendere la carriera di fotografa incamminandosi su un altro itinerario che, rispetto al precedente, si rivelerà intenso e dinamico ma soprattutto più accidentato.

Nel suo nuovo bagaglio aveva però conservato un insegnamento appreso dalla musica, ovvero che non basta l’abilità tecnica perché bisogna saper interpretare con acume e senso della misura le note – apparentemente uguali per tutti – scritte sul pentagramma. E così fece con la fotografia, interpretando quello che i suoi occhi vedevano attorno a lei per restituire l’essenza dei fatti e delle situazioni con immagini dirette e penetranti che l’hanno caratterizzata in maniera unica.

Immagini che furono da subito apprezzate specie all’estero.

Però i riconoscimenti che, in modo unanime, avevano costellato la sua precedente attività musicale furono per lei pressoché irraggiungibili in Italia, e non per incapacità di utilizzare il mezzo fotografico o il linguaggio visivo.

Infatti, nel nostro Paese, diversi ambienti la tennero in disparte e la osteggiarono. Non gradivano la scomodità delle sue posizioni ideologiche che coerentemente trasponeva nei suoi numerosi reportage, né il modo con cui concepiva la fotografia quale «strumento per cercare la verità», né il conseguente taglio orientato al sociale e non subordinato a estetismi ed equilibri formali «perché è più importante la sostanza di ciò che accade».

Diceva in proposito: «sono vicina agli “ultimi” ma non voglio farne un simbolo che trascenda le figure reali, voglio afferrare ciò che sta sotto la superficie dove allo sguardo frettoloso tutto appare insondabile».

Tra i suoi indimenticabili lavori, molti riguardano Genova e in particolare gli ospedali Gaslini e Galliera, il centro storico, il lavoro dei camalli del Porto. Fra le altre ricerche, Parigi, l’ormai anziano poeta Ezra Pound, il movimento di protesta dei Provos nei Paesi Bassi, Firenze dopo l’alluvione nel 1966, le genti e le loro condizioni di vita in Oriente, nell’America meridionale e in tante regioni italiane.

In uno dei suoi viaggi in India negli anni settanta Carmi conobbe il maestro yogi Babaji. Un incontro folgorante che trasformò radicalmente la sua esistenza: un’altra svolta decisiva, la seconda, nel 1976. Sempre incurante di perdere le posizioni acquisite, chiuse con la fotografia e, a sue spese, mise in piedi a Cisternino in Puglia un ashram, luogo di meditazione nella natura secondo le tradizioni indiane.

È stato l’ultimo e più lungo capitolo della sua lunga vita – frutto dell’innata volontà di autodeterminazione e della consapevole necessità di guardare in maniera critica al proprio vissuto e trovare strade nuove – che si è chiuso proprio a Cisternino il 2 luglio 2022.

A discapito del breve periodo della sua stagione da fotografa, Carmi ci ha regalato un archivio di grande contenuto culturale e informativo al quale studiosi aperti e lungimiranti stanno, da qualche anno, rivolgendo la loro attenzione.

Un’iniziativa che, seppur tardivamente, ha dato a Carmi la collocazione che le spetta nel panorama della fotografia italiana facendola finalmente conoscere al grande pubblico e risarcendola così dell’ostracismo che le era stato ingiustamente riservato. Era felice che fossero state finalmente riproposte sue mostre personali a tema, fra cui Viaggio in Israele e Palestina, Genova, Soggetto nomade, La bellezza della verità, Il senso della vita – ho fotografato per capire.

Sono lavori di significativa attualità sul piano del metodo e del contenuto perché Carmi li aveva costruiti concentrando l’attenzione sulle persone comuni delle classi subalterne in contesti di consueta quotidianità per dare voce a chi non ce l’ha. Documenti di “storia minore” non con l’occhio del Neorealismo, bensì come rappresentazione di un mondo che con fatica stava allora cercando di crescere tra contraddizioni, contraccolpi, mutamenti di costume e di pensiero.

Insomma la capacità di far vivere nelle foto cose e persone, cioè il ritratto del suo desiderio di stare in mezzo alla gente, di sfidare le convenzioni, dell’indipendenza del suo spirito di osservazione, del coraggio di essere semplicemente Lisetta Carmi.

 

Orgosolo

Sardegna, 1964