L’impossibile Vita nova

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Dante elegiaco: un saggio di Stefano Carrai del 2006 ristampato nel 2020 da Olschki editore

di Francesco Carbone

 

«la intollerabile beatitudine…»

(Dante, Vita nova, XI)

 

Che cos’è l’amore? «È dare qualcosa che non si ha a qualcuno che non la chiede». È una frase dello psicanalista Jacques Lacan che si adattar bene alla Vita nova di Dante. Tanto più che, da qualunque parte si provi a entrarci, è ben uno strano caso questo del suo primo «libello» (Proemio).

Prodigiosa è la storia: Dante a nove anni s’innamora di una coetanea, «angiola giovanissima»; la rivede nove anni dopo. Il numero nove torna ossessivo come il segno di un destino che deve solo compiersi. In questo secondo incontro Beatrice lo saluta, emozionandolo tanto che gli «parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine». Da questo momento, la gioia per Dante consiste in quel saluto di Beatrice. Tutto accade senza l’ombra di desiderio sessuale. Tra sogni premonitori, svenimenti di Dante, lutti ed equivoci, il giovane poeta perde irrevocabilmente il diritto a quel momento estatico che gli detta versi sublimi. Alcune donne gentili chiedono a Dante in cosa allora possa consistere la gioia di un amore senza alcuna corresponsione: il giovane risponde che gioia sarà trovare le parole poetiche per lodare Beatrice anche nella sua irrevocabile mancanza. Poesia e amore ormai coincidono. Beatrice muore. La natura santa, miracolosa e unicissima di Beatrice è per Dante sempre stata evidente; ma sente che non ha la lingua degna per dirla: il racconto si sospende a questo punto, con la speranza di poter dire un giorno «di lei quello che mai non fue detto d’alcuna». È questo finale, scrive Stefano Carrai nel suo recente e utilissimo Dante elegiaco, «uno dei passi più enigmatici e insieme – non foss’altro per la posizione – più importanti» del libello.

Per questo racconto Dante, autore sperimentale come nessun altro, ha scelto una forma in cui si alternano prose e poesie: è dunque un prosimetro. Il precedente più illustre è il De consolatione philosophiae di Boezio, testo tra i più essenziali per leggere tutto Dante. De consolatione ha in comune con la Vita nova anche l’essere un testo scritto per «il fine di sfogare e confortare l’infelicità».  Ma con la Vita nova il prosimetro prende una forma, analizza con finezza passo per passo Carrai, «che non aveva precedenti». Nuovissima la storia, nuovissima la forma.

Uno dei non pochi aiuti che ci offre questo saggio tanto breve quanto ricco è di riassumerci i dubbiosi ragionamenti dei migliori lettori della Vita nova: per Robert Hollander, è «a difficult and puzzling work»; per Marco Santagata «un libro subdolo, che non si lascia afferrare per intero». La storia apparentemente esile e semplicissima di un giovane poeta che ama una ragazza che presto morirà ci direbbe infatti cosa? Tutti paiono d’accordo su cosa la Vita nova non è: soprattutto non è un’autobiografia: «gli avvenimenti che si succedono, gli incontri, i viaggi, i discorsi possono non aver avuto luogo nel modo che vi si dice» (Erich Auerbach); «il libello non è trascritto da un’autentica memoria esistenziale, ma da una memoria che si innesta sull’immaginazione e sulla poetica dell’autore» (Maria Corti); ovvero: la Vita nova è un testo nel quale il «personaggio medievale che dice “io”» si muove in realtà «in un quadro premeditato» (Gianfranco Contini). Guglielmo Gorni, che della Vita nova ha curato un’edizione fondamentale (Einaudi 1996), ha fatto a sua volta ben presente il «carattere pretestuoso» della storia, e cioè accuratamente costruito a posteriori per la manifestazione di una serie di significati simbolici ed esemplari, persino elusivi e subliminali.

Se rinunciamo al complesso di reverenza che, come un riflesso di Pavlov, ci fa restare adoranti e acritici di fronte a qualunque espressione del Sommo Poeta, molte domande potrebbero sorprenderci di fronte alla stranissima e forse inclassificabile farfalla che s’intitola Vita nova. La domanda essenziale di Stefano Carrai pare semplice: che cos’è la Vita nova di Dante? – Carrai è uno studioso importante della nostra letteratura medievale e non solo (ha scritto anche di Saba e Svevo); ha, tra l’altro, portato a termine il commento del Purgatorio dell’edizione Einaudi (2019) rimasto incompiuto per la scomparsa di Saverio Bellomo, e con Giorgio Inglese – che per Carocci ci ha offerto un’edizione della Commedia bellissima – ha scritto La letteratura italiana del Medioevo (Carocci 2009).

Proporre, come fa Carrai, un percorso per una possibile classificazione della sfuggente farfalla Vita nova è importante? Sì, se classificare vuol dire individuare nell’oggetto che vogliamo conoscere le caratteristiche che ci permettono di collocarlo nello spazio, accanto ad altri che gli corrispondono, e nel tempo: nel punto dello sviluppo del genere che gli è proprio. Proprio questo porre l’opera nel punto giusto del quadro, ne farà emergere la singolarità, che nel caso della Vita nova è straordinaria. In modo del tutto persuasivo, Carrai lega il libello alla «particolare interpretazione medievale dello stile elegiaco» come «espressione dell’infelicità e del dolore». Oltre Boezio, vanno tenuti presenti almeno Agostino, la Bibbia, l’Ars poetica di Orazio, i Remedia amoris di Ovidio, il tanto vietato quanto letto De amore di Andrea Cappellano, e naturalmente il maestro e amico, a cui la Vita nova è dedicata, Guido Cavalcanti, «poeta dell’amore doloroso per eccellenza e dell’autocommiserazione». Proprio la Vita nova, tra le tante possibili cose, è il resoconto del progressivo distacco di Dante da Cavalcanti, poeta dell’amore come «accidente che sovente è fero», che «poco soggiorna» e «di sua potenza segue spesso morte» (Donna me prega): quanto di più lontano dall’esperienza mistica e salvatrice che invece vuole essere per il cattolico Dante il provvidenziale incontro con Beatrice. Definita elegiaca la farfalla Vita nova in quanto «storia di un amante frustrato e dolente», si potrebbe obiettare che avremmo appena riconosciuto ciò che accomuna il libello straordinario a tantissimi altri.

 

Mettiamo che capiti di leggere il romanzetto esile di un esordiente, il quale – come spesso gli esordienti – abbia scelto di raccontarci il suo primo amore; mettiamo – quale originalità – che la ragazza muoia nel fiore degli anni: diremmo che finora accade tutto proprio come nel famigerato Love story di Erich Segal, che fu fatto uscire il giorno di san Valentino del 1970, venne tradotto in 33 lingue, vendette dieci milioni di copie, divenne un film che fece piangere tanto, e chissà se c’è ancora qualcuno che lo legge. Questa ennesima elegia, come nel caso del libello di Dante, è dunque una storia di morte e di consolazione grazie alla scrittura; persino la morale potrebbe apparire la stessa, perché è forse proprio vero che «amare vuol dire non dire mai mi dispiace». Senza dover ricorrere per forza all’idea dell’Inconscio collettivo di Jung, potremmo veder confermata l’idea – quanto cristiana – che le storie d’amore ci piacciono soprattutto se muore almeno uno dei due: benissimo se, come Romeo e Giulietta o Paolo e Francesca, muoiono entrambi. Non ha dimostrato questa peculiare passione della nostra cultura, sia alta che popolare, già Denis de Rougemont nel fortunato L’amore e l’Occidente (Rizzoli 1998)? Siamo la civiltà che ha inventato Tristano e Isotta, la Laura di Petrarca, il Werther, Manon Lescaut, Cime tempestose, l’amore impossibile sul Titanic di James Cameron, e chissà quante ne inventeremo ancora. Proprio l’amico-maestro di Dante, Guido Cavalcanti, tra amore e morte aveva messo un drastico segno di uguale. E la singolarità, l’eccezionalità di Dante in cosa consisterebbe? Intanto che l’equazione diventa tra amore e resurrezione, dove la morte non è che un passaggio, nel suo Itinerarium mentis in Deum, come intitolò il suo capolavoro san Bonaventura (che ritroveremo nel Paradiso di Dante). Quanto mai inattuale è il modo di Dante di amare Beatrice.

 

Geniale è la consapevolezza del giovane Dante che al racconto della novità (Vita nova) dei fatti di cui ci dà conto deve corrispondere una rivoluzione espressiva e filosofica rispetto agli stessi poeti contemporanei. Scrive Carrai che Dante «non intendeva proporre soltanto il resoconto esemplare di una svolta ascetica e spirituale, ma anche quello di una maturazione stilistica». C’è uno scarto essenziale tra Al cor gentil reimpara sempre Amore di Guinizelli, dove la donna provoca l’innamoramento per avere «d’angel sembianza», ma non come in Dante sostanza, per cui l’amore resta un’esperienza mondana ed estetica; c’è uno scarto essenziale dal poeta filosofo Cavalcanti che racconta il privilegio tragico di avere un cuore gentile come la condizione che fa più subire l’esistenza come «un campo di forze in atto e in perenne conflitto» (Domenico De Robertis): senza nessuna purificata ricomposizione nel seno di Dio, senza nessun ruolo della donna come tramite di questa, per Dante, irrinunciabile possibilità di salvezza.

Per questo itinerarium, è evidente, scrive anche Carrai, l’«artificiosità e tendenziosa esemplarità della storia», «premessa indispensabile ad una poesia diversa da quella praticata fin lì». La morte di Beatrice è una stazione necessaria, «l’innesco di una palingenesi»: lo snodo per «un percorso di redenzione sulla strada della contemplazione dell’eterno e della poesia teologica».

 

Stefano Carrai

Dante elegiaco

Una chiave di lettura

per la «Vita nova»

Olschki, Firenze, 2006

  1. 122, euro 11,00