L’Istria di Livio Crovatto

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di Walter Chiereghin

 

Sole alla valle, sole alla collina, per le campagne non c’è più nessuno. Addio, addio amore, io vado via amara terra mia, amara e bella.

 

Enrica Bonaccorsi e Domenico Modugno

 

Al di là della “patria” in senso stretto, del luogo cioè dove abitiamo, dove siamo nati e dove ci siamo formati, esiste spesso un luogo d’elezione, magari contiguo al primo, o anche lontanissimo: una regione, a volte più d’una, dove il nostro io si mette in ascolto e di frequente trova assonanze tra i luoghi in cui si sofferma e la propria persona, la propria storia individuale e familiare.

Per molti triestini, tale luogo d’elezione è rappresentato dall’Istria, talvolta per memorie familiari anche drammatiche, in altri casi semplicemente per la vicinanza territoriale che fa della penisola istriana il retroterra più naturale e più prossimo della città, in altri casi ancora, banalmente, perché è il luogo delle vacanze estive, per lo più golosamente consumate sulle spiagge e sulle cittadine della costa.

Anche Livio Crovatto ha subito e subisce tuttora il fascino della terra rossa dell’Istria, che da molti anni percorre, come sempre armato di fotocamera per documentare, per sé e per gli altri, luoghi e incontri che lo inducono a fissare nell’immagine fotografica ciò con cui entra in contatto.

La “sua” Istria non è quella azzurra e accattivante delle località costiere, dove il trionfale progredire del turismo di massa sottrae, una stagione dopo l’altra, l’autenticità veneta dei borghi litoranei, dove la fatica era un tempo quella delle reti da pesca da rammendare, del lavoro dei calafati nei piccoli squeri odorosi delle stoppie incatramate, mentre è oggi quella dei servizi a un turismo sempre più impersonale. Gli ambiti territoriali in cui si concentra l’interesse del fotografo sono, e non da oggi, quelli dell’Istria interna, terra avara ed esigente, fatta di campagne sempre più svuotate, di modo che le immagini esposte, riferite agli anni Settanta e Ottanta del secolo passato assumono, per lo più nel loro nostalgico bianco nero, valenza di documentazione ormai storica, a testimonianza di un tessuto sociale rurale che ha consumato in quell’epoca, con omerica lentezza, gli ultimi scampoli di una cultura refrattaria al mutare delle condizioni economiche e politiche che non riuscivano a penetrarla, come pure non la turbavano più che tanto il valzer di confini che andavano e venivano, cambiando periodicamente la geografia politica della penisola, mentre quella fisica rimaneva testardamente uguale a se stessa.

Il lungo reportage di Crovatto su quelle località (Portole, Buje, Momiano, Verteneglio, le valli del Quieto e del Dragogna), per lo stratificarsi in un intervallo temporale ormai significativo, assume la connotazione di una documentazione storica prima ancora che geografica, riportandoci a un mondo patriarcale che, pur essendo materia di quarant’anni fa, sembra lo stesso di diversi secoli precedenti, con i buoi Boscarin ancora non sostituiti dai trattori, gigantesche incarnazioni della monumentalità bovina di carducciana memoria, con pecore, con le capre, una delle quali colta in una postura quasi araldica da un’inquadratura che rimanda allo stemma dell’Istria. E poi, naturalmente, la rappresentazione del lavoro, della stanchezza nei volti di pietra e nelle mani callose di chi la vita deve cavarla da una terra non certo prodiga, mondata dei suoi mille sassi di calcare dall’opera indefessa di svariate generazioni.

Avvicinandosi al nostro presente, sottolineato qui dall’abbandono del bianco nero a favore di una fiammeggiante tavolozza catturata dall’obiettivo di Crovatto nei campi – soprattutto primaverili e autunnali – in un paesaggio mutato, con i casolari abbandonati nelle campagne, le occhiaie vuote di porte e finestre che fino a ieri si indovinavano custodi di un’intimità familiare ormai perduta, vinta per sempre dalle lusinghe del lavoro in fabbrica, della città, delle località turistiche, di una vita che si promette meno tiranna e più confortevole o, mal che vada, più incline al compromesso.

Ancora una volta, con le immagini esposte in questa mostra, Crovatto indica la via di una rappresentazione giocata tra la decisione dell’inquadratura energica netta nella definizione dei dettagli che gli importa di sottolineare e l’accuratezza morbida di un delicato sentire. Un altro atto d’amore per questa terra amara e bella.