LO SLATAPER DI KRAVOS

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di Luca Zorzenon

 

 

Dall’adolescenza a oggi, una tenace passione per Il mio carso ha spinto Marko Kravos a proporne una nuova traduzione in sloveno, che si aggiunge e si raffronta a quella che Kravos pubblicò nel 1988, centenario della nascita di Slataper. Il monolinguismo di chi scrive non consente di entrare nel merito del lavoro di traduzione difficile e affascinante del complesso impasto linguistico e stilistico slataperiano.

È della bella prefazione del traduttore che s’intende trattare. In primo luogo perché essa offre brevi ma importanti coordinate sui percorsi di una ricezione slovena dell’opera. Che sconta, inizialmente, l’impaccio drammatico del primo dopoguerra e dell’avvento del fascismo nelle terre di confine. Kravos cita tra l’altro la testimonianza di Pavle Merku sulla difficoltà estrema di trovare l’opera di Slataper nelle biblioteche triestine lungo il ventennio. E poi, dalla Liberazione, Kravos tratteggia un avvicinamento progressivo della cultura slovena all’opera slataperiana, sulla via di un difficile ma quasi ineludibile confronto con una scrittura italiana della frontiera sul cui rovescio l’intellettualità slovena più avvertita sente di dover misurare se stessa e la propria tradizione storica e culturale calando «i dilemmi triestini sulla civiltà e l’identità nazionale» presenti in Slataper entro problematiche di più ampio respiro, fino a riconoscere nel Carso un libro capace di esprimere «tensioni e dilemmi morali ed esistenziali dell’uomo del XX secolo».

È questo il solco della ricezione slovena, tracciato da Lino Legiša, Milko Matičetov, Alojz Rebula e Pavle Merku, entro cui Marko Kravos s’inserisce con la sua nuova traduzione. È un punto di vista che non permette di trascurare ma semmai di storicizzare con migliore messa a fuoco un secolo e più di storia slovena e italiana di Trieste, della città e del suo Carso, scandito dalle due guerre mondiali, dalla dittatura fascista e dal fardello di una ricezione municipale dell’opera di Slataper in senso vuoi liberal-conservatore, vuoi nazionalista vuoi più dichiaratamente fascista che sicuramente ha inquinato la possibilità del confronto interculturale. Se dunque lo scrittore triestino può esser definito un esempio novecentesco d’intellettuale di frontiera, come dalla critica italiana è stato ampiamente fatto, il riconoscimento pieno di questo suo statuto intellettuale non può esser davvero tale se dalla parte slovena manchi un contributo criticamente motivato nella stessa direzione. Nozione monologica di confine e di frontiera non si dà, se non in discorsi che peccano di idealismo, talora fin pericoloso.

Ne discendono ulteriori considerazioni di Kravos, quali la proposta di approfondire il confronto tra Slataper e le opere di Gruden, Kosovel, Zlobec, Rebula, Pahor, e semmai di abbandonare raffronti troppo condizionati in senso nazionalista, e piuttosto improbabili, con la poesia di Gregorčič. E in Kravos bene si afferma una lettura letteraria del brano noto come “la calata”, ove lo “s’ciavo”, il “mongolo”, il “cane” rivolto al contadino sloveno da Pennadoro-Alboino (che, se è proiezione dell’autore, come ogni lettore minimamente avvertito sa, non coincide sic et simpliciter con l’autore) è uso mimetico del tipico linguaggio antisloveno di certa borghesia triestina (donna Paola, delle righe successive…). E il passo in questione, andrebbe chiosato con l’osservazione acuta di Marta Verginella, in sede di presentazione del Moj kras di Kravos a Trieste, di uno Slataper che per primo nella cultura italiana della città supera la visione borghese dello sloveno come “buon selvaggio” carsico. Notazione che apre all’interpretazione della “calata” in direzione di un rovesciamento (auto)critico e parodico (antiborghese) della “satira del villano”.

Il lungo rapporto di Kravos con Il mio carso ne esalta una possibile rappresentatività ulteriore, quella di una immedesimazione, fin dagli anni adolescenziali del liceo, «da sloveno triestino, in molte delle questioni che assillavano Slataper: identità, amor patrio, amore per la solitudine e la percezione dei problemi nell’ambito sociale». Un «caos di verità contrapposte», scrive Kravos, entro cui Slataper «mi indicava la via sulla stessa cresta carsica che frequentava anch’egli».