L’originale “visione” di Paolo Monti

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Un’importante retrospettiva al Castello Sforzesco di Milano

di Michele De Luca

 

Figura chiave della nostra fotografia contemporanea, che, come scriveva lo storico della fotografia Romeo Martinez un anno dopo la sua morte, “ha avuto la più grande influenza nella sua evoluzione contribuendo in maniera decisiva ad inserirla nel panorama europeo”, Paolo Monti (Novara 1908 – Milano 1982) ha concorso, con la sua produzione fotografica ma anche con il suo spessore culturale e professionale, a creare una più matura e moderna autocoscienza della fotografia nell’ambito della cultura italiana quale forma autonoma e originale di ricerca espressiva.

Esattamente venticinque anni fa, nel 1992, per i tipi della Federico Motta Editore, a dieci anni dalla scomparsa, uscì una splendida monografia (Paolo Monti. Fotografie 1950 – 1980) curata da Giovanni Chiaramonte, in cui, oltre all’impeccabile riproduzione di una significativa selezione di immagini, veniva ripercorsa l’intensa e rigorosa ricerca, facendocene cogliere il senso più originale e profondo, il suo “segreto”. “Sin dal suo primo sorgere – annotava allora Chiaramonte – la visione di Paolo Monti si espone alla totalità del reale con la consapevolezza di non poter comprenderne né tanto meno rappresentarne il mistero e così, priva di ogni certezza che non sia quella drammatica e altrettanto misteriosa del suo stesso esserci, essa, nel corso del suo complesso sviluppo, viene animata da continui quanto disperati interrogativi che corrodono, negandola dall’interno, la prevalente tradizione italiana fatta di rispetto per la consistenza della forma esteriore e di studiato equilibrio compositivo e tonale. In ogni volto ed oggetto indagati, in ogni architettura o materia analizzate, Monti si confronta con l’enigma per lui insolubile della loro forma provvisoria in continua metamorfosi e, constatando l’improponibilità di qualsiasi significazione veritiera come l’impossibilità di qualsiasi sintesi unitaria, la sua visione si libra con libertà assoluta tra la descrizione obbiettiva della superficie esteriore del mondo e l’invenzione soggettiva delle personali pulsioni interiori e si muove, sempre inquieta e appassionata, tra gli interessi più vari e le scelte linguistiche apparentemente più contraddittorie”.

A Monti, autentico maestro dello scatto e della camera oscura, è dedicata la bella antologica “Paolo Monti. Fotografie 1935-1982” al Castello Sforzesco di Milano; il catalogo, a cura di Pierangelo Cavanna e Silvia Paoli, è pubblicato da Silvana Editoriale ed è dedicato a tre grandi protagonisti della fotografia italiana, Cesare Colombo, Marina Miraglia e Alberto Prandi, scomparsi nel corso di questo terribile 2016. In tutto, duecento foto (in buona parte stampe originali dello stesso fotografo), insieme a materiali come riviste, libri, documenti anche inediti che ripercorrono il suo lungo e intenso lavoro, circa mezzo secolo di indubbia complessità e di grande rigore sul piano dell’invenzione linguistica e della sperimentazione anche tecnica.

Proveniente dalla fotografia amatoriale e dall’esperienza veneziana del famoso circolo “La Gondola” (che nel 1947 fondò con alcuni amici e nel giro di pochi anni si impose sulla scena internazionale come movimento d’avanguardia), Monti approda alla professione in età matura, lasciandosi alle spalle una sicura carriera di dirigente aziendale. A Milano si dedica in particolare alla fotografia di architettura e di design collaborando con le più prestigiose riviste, da Domus a Casabella. Intanto conduce instancabilmente le sue ricerche sull’ambiente urbano, sulla natura e sul paesaggio, lavorando anche in campagne di censimento architettonico ed urbanistico.

Nel 1953 decide di dedicarsi pienamente alla fotografia; viene scelto come fotografo per la X Triennale e dà inizio a una feconda attività editoriale: oltre ai servizi pubblicati sulle riviste, le sue foto concorrono a illustrare più di duecento volumi su regioni, città, artisti e architetti. Negli anni ’60, come esponente significativo della realtà culturale legata alla fotografia, Monti diventa protagonista di una fitta rete di relazioni che gli portarono notevoli fortune anche in ambito lavorativo: in particolare, nel 1965, una vasta campagna di rilevamento per l’illustrazione della Storia della Letteratura Italiana di Garzanti e, dal 1966, un sistematico censimento fotografico (il più ampio mai concepito in Europa) delle valli appenniniche e dei centri storici delle città dell’Emilia-Romagna, che lo impegnò per oltre dieci anni. Nel 1979 viene chiamato a collaborare con l’ Einaudi nella realizzazione dell’apparato iconografico della Storia dell’Arte Italiana. Va ricordato anche come Monti fosse impegnato anche nel campo della didattica, insegnando Tecnica della Fotografia alla Società Umanitaria di Milano dal 1964 al 1966, e più tardi – fino al 1974 – Tecnica ed Estetica dell’Immagine presso il Dams di Bologna.

La mostra mette in luce i vari momenti dell’opera di Monti, sempre fedele a un “credo” che soleva riassumere in una frase assai incisiva: “Una riproduzione non può mai essere qualcosa di amorfo, c’è sempre una scelta”. Artefice nell’Italia del dopoguerra di un profondo rinnovamento del linguaggio fotografico italiano, Monti è stato sempre attento al contesto internazionale, rappresentato in primo luogo dalla tedesca “Subjektive Fotografie” di Otto Steinert, ma anche dai grandi autori della fotografia americana come Weston e Siskind o francese come Daniel Masclet e Brassaï. Nella magia del suo bianco e nero tutti i soggetti che negli anni hanno provocato l’attenzione del suo avido sguardo rivivono in una “scrittura” che non è mai passiva ricezione, ma invece attiva e critica interpretazione

Ciò che affascina particolarmente nella sua indagine e nella sua mai interrotta sperimentazione, è ciò che appare inestricabilmente, ineluttabilmente legato alla sua amara consapevolezza del rapporto tra immagine e tempo (inevitabilmente caduca la prima, inesorabilmente edace il secondo; oltre qualsiasi invenzione, oltre ogni illusione). Scriveva – quasi in un “testamento” – in un suggestivo passo del libro Trent’anni di fotografia 1948 – 1978, edito nel 1979 da Punto e Virgola di Modena: “L’uomo è sempre stato affascinato dal mistero del Tempo, ed atterrito dal suo veloce divenire ha desiderato vincerne il corso o almeno rallentarne la marcia, fermarne alcune immagini strappandole al passato. Ognuno aveva solo la sua memoria che col passare degli anni, incapace di documentare, si sforzava di illudere arricchendo il passato di quegli sperati splendori che non ebbe. Finalmente ad aiutare i ricordi venne una macchina, l’apparecchi fotografico un tempo ingombrante come un mobile in mezzo alla stanza, oggi leggero, lucido e preciso come un’arma. Fino a quando seguire un volto, inseguire una vita? Un giorno l’obiettivo dovrà chiudere il suo gelido occhio e lasciare che il tempo compia la sua opera. Come dice Leonardo: o tempo, consumatore di tutte le create cose”.