Luci e ombre di una domenica in campagna

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di Stefano Crisafulli

 

Entrare in un quadro di Renoir: è questa la sensazione immediata che offre allo spettatore il film di Bertrand Tavernier Una domenica in campagna (titolo originale: ‘Une dimanche à la campagne’) del 1984, nonostante il regista francese (morto il 25 marzo di quest’anno) abbia detto esplicitamente di aver voluto evitare riferimenti diretti all’impressionismo per privilegiare i pittori di Lione, la città in cui è nato. In particolare l’ambientazione del film, una casa di campagna a Yveline, amena località vicino a Parigi, nell’estate del 1912 e, soprattutto, le luci del direttore della fotografia Bruno De Keyzer, sono i due elementi che riportano alla pittura en plein air dei maestri impressionisti. Il tutto è reso, però, molto più chiaroscurale, per usare un termine pittorico, dal protagonista della storia, monsieur Ladmiral, un anziano pittore (interpretato da Louis Ducreux), coevo di Renoir e Monet, che ha preferito non tradire la propria idea artistica originaria, la quale, tra l’altro, gli ha fruttato un discreto successo, mettendosi sulle tracce dei colleghi emergenti: «E d’altra parte imitando l’originalità degli altri – dirà a sua figlia Irène (Sabine Azéma) nella parte conclusiva del film -, sarei stato ancor meno originale, non solo: avrei perduto la mia piccola musica». Eppure, alla fine della sua vita, qualche rimpianto c’è nel non aver osato di più, nell’essersi limitato a cavalcare l’onda del primo successo per poi ritirarsi, forse troppo presto, nella sua casa di campagna.

Quello di Tavernier è un piccolo grande film, fatto di sguardi e di sensazioni, di dialoghi quotidiani apparentemente superficiali, che però nascondono un turbillon di sottotesti e di non detti, soprattutto quando i due figli di Ladmiral vengono a trovarlo per una visita domenicale: il primo, Gonzague, è sposato, con tre bambini, e ha rifiutato una possibile carriera artistica per evitare il confronto col padre, rifugiandosi in un grigio torpore impiegatizio, mentre la seconda, Irène, è l’eccentrica della famiglia, non si è sposata (ma ha un amante che non sembra tenere molto a lei), ha un negozio di abbigliamento a Parigi ed è un vero uragano quando irrompe con la sua automobile e il suo cane di nome Caviale nella placida atmosfera famigliare. Ladmiral è più affezionato a lei che al figlio, perché ne ammira la vitalità, che però nasconde un’inquietudine mal sopita, e lei lo ricambia, portandolo con l’auto, in una delle scene più belle del film, ad una ‘guinguette’ in riva al fiume (locale da ballo tradizionale dell’epoca, immortalato anche da Renoir in un suo celebre quadro, La colazione dei canottieri) e danzando assieme a lui. Ma ciò che rende il film di Tavernier, che ha vinto il premio per la miglior regia al festival di Cannes, un piccolo capolavoro è, anche, il suo modo di scolpire il tempo. La macchina da presa, infatti, indugia sullo scorrere delle ore durante il pranzo domenicale con la giusta lentezza, né troppo poca, né troppa, per far capire a chi guarda che in realtà la sabbia nella clessidra sta correndo velocemente per Ladmiral e i suoi figli e che le possibilità di una svolta si assottigliano sempre più. Eppure, allo stesso tempo, Tavernier sembra volerci dire che no, non è mai tardi per ripulire la tela dai detriti della vita e avere un sussulto d’orgoglio, nemmeno quando l’estate è quasi finita e la luce del sole lascia il posto alle prime ombre della sera.

 

Pierre-Auguste Renoir

La colazione dei canottieri

olio su tela, 1880-1882

Phillips Collection,  Washington