Massimo Bottecchia e Luigi Molinis

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La bella vita del critico d’arte parte quindicesima

di Giancarlo Pauletto

 

Ofelia Tassan Caser, direttrice della Biblioteca civica di Pordenone, mi chiamò più volte a collaborare alle mostre che ideava in parallelo al festival letterario “Pordenone legge”, certo tra i più noti del genere in Italia.

Erano mostre in cui si facevano giocare assieme parole e immagini, talvolta dello stesso autore, che era magari contemporaneamente incisore e poeta, talvolta un poeta commentato dalle immagini di vari artisti che si misuravano con i suoi versi.

Incisore e poeta era Massimo Bottecchia (1928 -1980), pordenonese, sostanzialmente autodidatta – conseguì da privato la licenza liceale, frequentò corsi di incisione e pittura all’Accademia di Venezia, studiò molto le opere dei grandi artisti in Svizzera e in Francia.

Lo avevo conosciuto nel marzo del 1969, quando c’era stata la sua personale alla Sagittaria, presentata da Elio Bartolini il quale, con la consueta acutezza, individuava nell’estrema precisione con cui l’artista costruiva le sue lastre, o i suoi disegni a china, un’inquietudine d’esistenza e di ricerca che tentava di realizzare, attraverso il segno, un mondo in cui tutto – di contro al polimorfismo della temporalità e della vita – fosse concluso, certo, definito anche se poi, nelle forme circolari che tanto spesso costituivano il dato emergente delle sue tavole, si insinuavano delle modulazioni che mettevano in dubbio ogni regolarità, ogni razionalità utopica, creando addirittura degli sprofondamenti, dei gorghi tutt’altro che rassicuranti, quasi degli abissi in cui perdersi senza rimedio.

Era una lettura che condividevo in pieno, e che fu alla base anche del mio intervento nel catalogo della mostra presso la biblioteca, nel settembre del 2003: rafforzato, questo intervento, da alcune considerazioni condotte sulla poesia di Bottecchia, che nel frattempo ero venuto a conoscere.

Egli scriveva degli esattissimi sonetti, che furono pubblicati nel 1979 all’interno della prestigiosa collana All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, introdotti da un chiaro testo di Giansiro Ferrata.

Avevamo montato l’esposizione alternando acqueforti e sonetti nella finzione che si trattasse di seguire il percorso di una giornata, dall’alba al tramonto alla notte, in ciò autorizzati dalla netta separazione, nella poesia dell’autore, tra la positività della luce e la negatività del buio, espresse molto chiaramente nei versi, per esempio, di Risveglio: «Nella luce dell’autunno mi abbaglio,/ al mattino, quando il frutto maturo/ del sole, come animale sicuro/ del consueto padrone, accende il vaglio// mal chiuso della persiana, nel taglio/ affilato che mi acceca […] mentre mi fido/ con più speranza, delle promesse del/ bel giorno che avanza a cui m’affido».

Oppure in Milano tempo bello: «Case, case, catene illuminate./ Ombra, luce, mattino chiaro, puro./ Cielo sgombro, Milano trasparente./ Monti, monti, giogaie, occhio sicuro// oltre nebbie disperse. Dente acuto/ delle cime pulite dalla luce».

Al contrario, in Paura del buio: «Gli occhi del buio sono alla finestra,/ si affollano: una curiosità folle/ li raduna. Un ammicco di folle/ inquiete. Vivi? Morti? […] Il tramestio silenzioso è così/ acuto: impiastra il cuore di paura./ Buia ogni certezza, sotto il creato./ Non serratura o fessura sicura».

Così i sonetti “luminosi” erano accompagnati da acqueforti intricatissime ma assolutamente nitide nella loro complessità, mentre quelli sotto il segno del buio e della notte erano accompagnati da acqueforti più ambigue e “sprofondanti” nella torsione dei segni circolari.

Massimo Bottecchia era un artista intenso, che sentiva fortemente le contraddizioni. Era però anche un uomo spiritoso, che vogliamo salutare ricordandolo con un sonetto splendido come Morire: «Morire quando piove non è cosa/ gradevole: affogare nella bara,/ inzupparsi le ossa, calato nella/ fossa con il cattivo tempo: meglio// attendere il bello: Morire, chi osa,/ quando rara è la rosa e il gelo vara/ vento, neve e brina: fa freddo nella/ gelida cantina. E neppure è meglio// morire a primavera, quando sposa/ si fa ogni speranza, quando più vera/ pare la sostanza della vita. Alla/ peggio, anche delusi, è più buona cosa/ essere prudenti, aspettare. Anche nera/ la notte, anche solo a vedere, è bella».

 

Sempre Ofelia Tassan Caser mi passò due cartelline, dicendomi: «Leggi e guarda e, se ti interessa, scrivi».

Apersi la prima cartellina, vidi che conteneva delle poesie, lessi a caso: «Avviluppate spire con repente slancio/ estendi, serpente, siccome espulso e ti protendi/ dal bosco alla radura che pria con furia/ e astratto orgoglio rimirasti mentre disciolto/ giacevi sul manto plastico del muschio […] Ma tutto nel sospeso tempo si compie/ d’una lenta movenza e, quale molla/ rattenuta poi scatta o scintilla/ da pietra ferrea sprigiona, così serpeggia/ la tua brace lontana in una lama/ sola ma nera come morte».

«Che è questo?» – mi dissi, dapprima piuttosto perplesso. «Costui usa formule espressive e lessico di sapore arcaico – repente, pria, rimirasti – ma coglie immagini di grande forza, come questa “brace lontana” che serpeggia «in una lama/ sola ma nera come morte». Bisogna continuare a leggere».

Continuai a leggere infatti, e poi a rileggere, fino a scoprire una sorta di chiave di questi versi, che mi parve di trovare nel componimento intitolato Fasti d’aprile: «Fuori c’è aprile/ indifferente a me che tremo e mi corrodo/ a me che in ombra mi divoro/ a me effigie rifratta e disturbata/ a me che spio la corruzione/ che brilla in occhi e denti e mi spaventa/ come fossi Ugolino a me medesimo/ e tetro vincitore di me stesso».

Una percezione del sé potentemente drammatica – Ugolino a me medesimo! – che in realtà deborda oltre il sé, si proietta sull’intero esistente, sostenuta da una cultura tanto libera – o tanto necessitata – da infischiarsene bellamente di quel che si passa, dell’hic et nunc della poesia e dell’arte, e ciò perché troppo intenta a catturare quella che si potrebbe chiamare la disperata immersione umana nel tempo, insomma la nostra destinazione alla morte: «Mani e volti/ e organi in trasparenza/ traballano e quasi/ traspaiono e si vedono,/ occhieggiano,/ impudenti funzionano/ davanti a noi che guardiamo// organi umidi/ organi polimorfi e venati// a volte/ sono putridi e ci scandalizzano./ […]// Organi funzionano nel fondo».

Non ricordo niente di simile nella poesia italiana contemporanea, uno sguardo così veritiero e così tetro nella nostra fisicità biologica, che è poi quella di tutto il vivente, così nitidamente simboleggiato, dall’autore, nella figura del serpente.

(Ma non pretendo di conoscere tutta la poesia italiana contemporanea, anzi).

Apersi anche l’altra cartella, e vi trovai i disegni che avrebbero dovuto accompagnare i versi nella mostra immaginata da Ofelia.

Nitidi disegni di meccanismi biologici, di forme viventi non identificate e non identificabili, esseri volanti o naviganti, parti di astronave in tutta la complessità dei loro congegni, o parti di biologie sconosciute, sconosciute come noi siamo a noi stessi, continuamente viventi senza figurarci neppure la millesima parte di quei nodi biologici che, funzionando “nel fondo”, ci permettono appunto di vivere.

Scrissi, naturalmente, e scrissi più o meno che la sensibilità “privata e personale” dell’autore non faceva che togliere il velo di ogni nascondiglio e metterci di fronte alla verità di noi stessi, figli di un’evoluzione che non ha scopo visibile e che può in ogni momento essere travolta da catastrofi naturali o non naturali, come per esempio un bel grappolino di bombe atomiche lanciate da un coglione convinto così di “fare la storia”.

Scrissi che l’autore ci metteva di fronte al duro, ma non eludibile compito, di dare noi stessi un senso al nostro “muoverci e pulsare” nell’esistenza.

Non un mostra “di passaggio”, insomma, per quanto interessante ma, per chi avesse voluto guardare e riflettere, un punto di sosta, una pausa necessaria.

Fu così che conobbi Luigi Molinis, friulano, architetto designer pittore e poeta, e sua moglie Bianca, che diventarono poi carissimi amici.

Il nome però non mi era del tutto nuovo, solleticava qualcosa nella memoria, ma non sapevo cosa: finché, rileggendo qua e là nella mia collezione di Linus – la rivista di comics fondata da Giovanni Gandini e poi diretta per vari anni da Oreste Del Buono – mi imbattei di nuovo nel nome, e nelle tavole che Molinis aveva pubblicato su quella rivista nei primi anni ottanta: di tono tra fantastico e surreale, esse erano realizzate con una finissima tessitura a pastello che si distendeva tono su tono, la stessa che ritrovai poi nei disegni architettonici e di industrial design che furono esposti nella mostra intitolata Luigi Molinis. Niente centrini sul televisore, voluta, nel 2011, dal Comune di Pordenone presso la Galleria d’Arte Moderna “Armando Pizzinato”.

Disegni che, se fossi direttore di un museo d’arte, mi affretterei a tentar di assicurarmi per le collezioni, esattamente e appunto per la proprietà, definizione e intensità delle icone che egli ha saputo creare progettando, per esempio, un termoconvettore, una lampada da tavolo, un miscelatore, un vaso, una casa o un paio d’occhiali.

Qualunque oggetto progettato, nelle mani di Molinis, tende immediatamente a perdere le sue connotazioni d’uso, si mette in comunicazione da un lato con una serie di suggestioni provenienti dal classico, dall’altro con una sensibilità che non può fermarsi al presente, al già dato, che deve in qualche modo immaginare il futuro, o almeno “un” futuro.

è un progettare che si capisce meglio se lo si vede accanto ai suoi lavori autonomi, quelli non legati alla progettazione, le chine i pastelli e le pitture.

Delle chine mi occupai la prima volta in una esposizione intitolata Attraverso il nero, allestita in alcune sale a pianterreno del Museo Civico di Pordenone nel 2016.

Una trentina di tavole tra i cinquanta e i sessanta centimetri di base per quaranta d’altezza componeva sulle pareti un racconto straniante e allarmante, immaginato dentro spazi algidi e irrespirabili e tuttavia non del tutto alieni, volti umani sotto minaccia d’armi puntute, creature biologico-meccaniche intente a complessi rituali, fortezze minacciate da vettori irrecusabilmente piombanti dall’alto e, anche, nodi, intrichi, filamenti debordanti oltre lo spazio della tavola.

Il tutto reso da un segno nero dalla perfezione impeccabile, sorretto da una sensibilità manuale infallibile, un chiarissimo alfabeto per parlare dell’ignoto, del cupo, del pericoloso, di tutto ciò che è allarmante e incombe sui momenti della nostra vita.

Più che nei testi critici, che pure ho scritto, credo di aver detto meglio su questi disegni in un sonetto che ho dedicato a Luigi: un sonetto, cioè una forma chiusa e definita per corrispondere, almeno in parte e nell’intenzione, alla straordinaria “finitezza” di queste chine.

Ecco il sonetto, ma naturalmente potete anche saltarlo e procedere oltre.

«Nel tempo che si volge indecifrato/ la tabe del vivente ti minaccia,/ ne sveli la tensione in una traccia/ di nero che compone un allarmato// diagramma di figure, percepite/ in algidi interspazi, in una sorte/ di come catafratta vita-morte/ che oppone il suo silenzio: le ferite// degli sguardi comprimono nel cuore/ ogni moto di salvezza e la paura/ determina le forme del dolore.// Questa è la verità: con la sua dura/ lama importa essere alla guerra/ contro la vecchia fame che si sferra».

Della pittura di Molinis mi ero occupato nella già ricordata mostra del 2011, ma meglio potei farlo nel 2019 a San Vito al Tagliamento, anche perché il Comune aveva messo a disposizione gli ampi spazi del cosiddetto “Castello”, entro i quali fu possibile allestire una esposizione che tenesse conto di una caratteristica della sua pittura che a me sembrava lampante, cioè il fatto che le tele, piuttosto grandi, chiedevano di essere accostate per dittici e trittici, intensificando così non solo la suggestione, ma anche la loro potenza iconica che si affidava, cromaticamente, a stesure tonali che tuttavia non richiamavano alcunché di naturalistico.

Nel testo in catalogo scrivevo infatti che noi non avremmo saputo collocare le forme che egli creava «in uno spazio d’esperienza quotidiana, né in uno spazio mentale di ordine geometrico, o fantastico nel senso di una fantasia fabulatoria; l’ordine d’immagini cui si riferiscono sembra piuttosto intermedio tra il meccanico e il biologico. Del meccanico hanno la nettezza, la pulizia […]; del biologico hanno certo colore cangiante, che si tende in tonalismi richiamanti i vetrini da laboratorio, non certo la luce solare».

E continuavo affermando che quelle “forme” o “figure” erano in tensione, non accettavano la quiete, tendevano reciprocamente ad accostamenti allusivi ad un’unità, che tuttavia non avremmo saputo identificare.

Insomma erano il modo che l’artista aveva trovato per la parlare della disperante, limitata e mortale condizione nostra: una verità vecchia, certo, ma ineludibile “specialmente per l’arte, che se al fondo non parla di questo, diventa solo decorazione e passatempo, quanto si voglia sontuoso, vario e divertente”.

L’arte, insomma, ha A che fare con la verità: che era appunto il titolo della mostra.

 

Massimo Bottecchia

Acquaforte

senza data