Michelstaedter secondo Sergio Campailla
febbraio 2020 | Fulvio Senardi | Il Ponte rosso N° 53 | saggi
di Fulvio Senardi
È un testo importante, forse un vero spartiacque per la comprensione del pensiero e dell’esperienza esistenziale di Carlo Michelstaedter, il libro di Sergio Campailla, Un’eterna giovinezza (pp. 299, euro 20), che Marsilio ha pubblicato negli ultimi mesi del 2019. Una vita trascorsa in compagnia delle opere del filosofo goriziano – che si è suicidato a ventitre anni dopo aver messo il punto finale alla tesi di laurea, mai discussa, e pubblicata postuma con il titolo de La persuasione e la Rettorica – la ricerca protratta e minuziosa di documenti d’archivio e di testimonianze garantisce a Campailla le conoscenze e gli strumenti adeguati per sondare il “caso” Michelstaedter come nessun altro saprebbe fare.
Aggiungiamo che, docente universitario a Genova e poi a Roma, Campailla – una poderosa bibliografia alle spalle relativa a temi storico-letterari (la sua materia di insegnamento) – ha deciso di misurarsi, già dagli anni Ottanta, sul terreno della narrativa. Come a dire che l’autore che ci prende per mano per accompagnarci alla scoperta dell’enigmatico intellettuale goriziano possiede tutti i ferri del mestiere per affascinare il lettore, senza mai per altro allontanarsi dalla retta via di un resoconto assolutamente fedele alle ultime risultanze storico-letterarie e filologiche. Una formula già adottata del resto in due precedenti lavori e sul medesimo soggetto, dove Campailla faceva emergere particolari inediti e aspetti sconosciuti di una vita breve ma intensa: A ferri corti con la vita (1974, 1981) e Il segreto di Nadia B. (2010). Il risultato è un racconto seducente che si legge tutto d’un fiato, proprio come un romanzo, e dove la qualità della scrittura fa a gara con l’acume interpretativo per offrirci il ritratto, coinvolgente e a tratti commovente, di un giovane sventurato che, poco più che ragazzo, decide di rinunciare alla vita. Ribaltando la tesi papiniana di un suicidio a radice filosofica, che aveva subito mostrato la corda lasciando però il campo alle più varie e fumose interpretazioni in chiave psicologica ed esistenziale, le scoperte e la narrazione di Campailla individuano la radice del gesto autolesivo (un cupo rintocco che inizia assai presto a risuonare nella vita del giovane goriziano: si toglie la vita Nadia Baraden di cui si era invaghito, dà addio al mondo – e in questo caso il dolore dovette essere insostenibile – il fratello Gino) in un ventaglio di motivazioni “umane, troppo umane”, per dire con uno dei filosofi più amati da Michelstaedter, Friedrich Nietzsche.
Da un lato un Edipo impossibile da sconfiggere e tanto insidiosamente sotterraneo quanto condizionante – qui la lettura di Campailla, ben a suo agio con lo strumentario psicanalitico, appare particolarmente sagace –, che spinge il goriziano a darsi la morte nel giorno del compleanno della madre («vale la pena di ribadirlo, per non disperdere tutto il valore tragico di quella ricorrenza, che è sempre sfuggito alla critica», dichiara con legittimo orgoglio lo scrittore, che fin troppo insiste però, lungo le quasi trecento pagine del libro, ma come non perdonarlo?, a rivendicare le proprie personali benemerenze sul terreno dell’esegesi michelstaedteriana, senza quasi accennare agli altri protagonisti di una tradizione interpretativa ormai ricchissima), un Edipo che corre sotto traccia e motiva il giovane a disegnare qualche irriverente ritratto della figura paterna, verso la quale, il suo «papacin», non provava negli anni infantili che affetto e ammirazione; da un altro la vergogna di una malattia contratta probabilmente nei bordelli e il cui strisciante procedere si manifesta con fastidiosi acciacchi che prostrano il morale e minano la salute fisica di un corpo altrimenti vigoroso e forte, lasciando intuire gravi esiti futuri.
Si aggiunga a tutto ciò la lucida comprensione che quella società nella quale il padre, fortunato e stimato funzionario assicurativo, si era perfettamente inserito, e che sembrava invece sbarrare al figlio le sue porte (Carlo si era visto fino ad allora rifiutare tutte le proposte di traduzione o collaborazione), era il mondo della disprezzata “rettorica”, della falsità, dell’ipocrisia eretta a sistema nelle relazioni interpersonali, dell’adattamento, costi quel che costi, a consuetudini e forme di vita adulteranti l’autenticità umana. Il «collasso psichico» si rivela, pochi giorni prima della morte, in un testo dal curioso destino, l’Appendice critica VII (appendice al testo della tesi di laurea): uno «sconvolgente testamento, scritto durante o in conseguenza di un tracollo psichico, alla resa dei conti di tutte le contraddizioni e tensioni, al culmine della malattia», «testo in lingua italiana», aggiunge Campailla, «conservato e tenuto nascosto dalla famiglia e poi distrutto dal nipote Carlo Winteler, esecutore testamentario, dopo avermelo letto». Si chiude così, tragicamente, la brevissima parabola di un ragazzo privilegiato, rampollo di una famiglia abbiente di ebrei integrati, ma orgogliosi delle proprie tradizioni (ancora sentite e praticate, ma verso le quali Carlo appare invece freddo e indifferente), e che aveva scelto di studiare in Italia, la patria del cuore, intrecciando a Firenze i suoi destini con la migliore gioventù giuliana espatriata in Toscana («l’aria italiana che spira da ogni cosa», scrive Michelstaedter con trasposto alla famiglia) per sciacquare in Arno i propri panni di recalcitranti sudditi austriaci.
Per altro l’accurata ricognizione di Campailla ci immerge in un’aria di famiglia che ci tocca e ci commuove in quanto triestini: ed ecco Carlo sorpreso, in una bella “istantanea” del libro, mentre «legge […] e sottolinea […] con foga un lungo e convulso articolo di Slataper sul pantragismo di Hebbel» nei giorni che precedono la scelta fatale di dire no alla vita, o che frequenta, prima da conoscente poi da vero amico, Giannotto Bastianelli (morirà anch’egli suicida nel 1927), musicista e musicologo vicino agli ambienti della «Voce» e collaboratore delle riviste fiorentine fino a «Solaria», che inizia il goriziano al culto di Beethoven (per Michelstaedter, la più alta personificazione dell’eroico, insieme all’uomo Gesù) destinato a diventare tanto intimo di Carlo Stuparich da suggerire a quest’ultimo l’idea di invitarlo a passare le vacanze in famiglia, sulla costa di Umago. Per non parlare della solida amicizia che all’Istituto di studi superiori di Firenze, lega Michelstaedter al corregionale Aldo Oberdorfer, fulgida figura di intellettuale (studioso di letteratura tedesca, traduttore, docente), di militante socialista e di perseguitato negli anni delle leggi razziali, troppo poco ricordato nella città che gli ha dato i natali.
Siamo insomma a ridosso di quello “Sturm und Drang” dei triestini della «Voce» che ha segnato in modo indelebile la cultura italiana del primo Novecento e di cui Michelstaedter in fondo partecipa, tanto relativamente alla passione per certi autori di riferimento (Nietzsche e Ibsen in primo luogo, ci aggiungerà poi Tolstoj) quanto in relazione alle simbologie (la figura del mare, innanzitutto, di cui, scrive Campailla, Michelstaedter «aveva scandagliato sulle tracce delle letture ibseniane, le risorse fantastiche», oppure il mito della montagna, come sfida da vincere prima di tutto contro se stessi – i monti del Pratomagno e le alture del Carso per Slataper, il San Valentin per il goriziano – un mettersi alla prova che impegna in una ideale ascensione, attraverso la fatica e la solitudine, verso la purezza).
Ma, per chiudere il discorso, una rispettosa tiratina d’orecchi all’autore di questo libro importante per non aver approfondito, con la stessa cura con cui tratteggia i chiaroscuri del suo “personaggio”, il contesto del mondo giuliano degli anni imperiali. Risvolto meno lusinghiero per lo scrittore, ma che non ci stupisce, in anni in cui i giornalisti della televisione (e pure, spesso, della carta stampata) ci hanno abituato ad ascoltare frasi del tipo: Trieste, capitale del Frìuli. Gorizia, negli anni di Michelstaedter e fino al 1918, faceva parte di un Land imperiale che si chiamava Österreichisches Küstenland (e non Adriatisches Küsterland – qui il proto ci ha messo certo del suo – che è invece il nome assegnato alla regione nel periodo dell’occupazione tedesca, 1943-45); Riccardo Pitteri non è poeta dialettale (anche se pubblica una raccolta in dialetto), ma poeta in lingua, anzi, uno dei più significativi epigoni triestini di Carducci (un mito anche per Michelstaedter, che ci consegna un ricordo della veglia funebre nella camera ardente del grande Vate – che preferirà sempre al suo smodato erede, Gabriele D’Annunzio – in rappresentanza degli studenti fiorentini); l’Isonzo non delimitava, tra il 1866 e il 1918, il confine tra Italia e Austria, che correva più a occidente, in coincidenza con il corso del fiume Judrio. E poi il tormentone del dialetto: Carlo, spiega Campailla elencando le lingue da lui conosciute, «sapeva […] ovviamente, il dialetto friulano» (p. 47), aggiungendo però, qualche capitolo dopo, che «Carlo, da buon giuliano, aveva simpatia per il dialetto, e, a forza di sentir toscaneggiare provava tanto più nostalgia per la sua parlata» (p. 112). Dunque, friulano o giuliano? Pare risolvere il quesito una lettera del marzo 1908 alla sorella Paula, nella quale, citando un proverbio, Carlo scivola nel «dialetto», che è con tutta evidenza il giuliano di Gorizia, di matrice veneto-coloniale, e non il friulano: «No sta sveiar i cani che dorme» (p. 159). Che suonerebbe invece in friulano «i cjans (con pronuncia differente, se friulano della “bassa”, quindi palatale, o del nord, gutturale) ca duarmin». In altre parole, come spesso a ovest dello Judrio, non è stato ben approfondito il complesso carattere etno-linguistico dell’Österreichisches Küstenland di un tempo, e della regione Friuli Venezia Giulia di oggi. Questione piuttosto marginale, si può concedere, rispetto allo specifico filosofico del personaggio, ma non inutile per meglio qualificare la figura umana e intellettuale del giovane filosofo, e comunque da segnalare a chi, il Campailla, fa della precisione di dettaglio un titolo di merito della propria ricerca. Resta, a prescindere da tutto ciò, l’apprezzamento per un libro che merita una lettura partecipe e attenta e per uno studioso che, con alti risultati, ha fatto del caso Michelstaedter la missione della propria vita.
Sergio Campailla
Un’eterna giovinezza
Vita e mito di Carlo Michelstaedter
Marsilio, Venezia 2019
- 299, euro 20,00