Ciò che Marta diventerà

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La storia di una bambina “venuta via”, che cambia, che cresce, che diventa donna

di Luisella Pacco

 

Quando legge un libro sincero, limpido, di un’onestà disarmante, il lettore deve adeguarsi, il recensore anche. Deve saper esser onesto altrettanto, con se stesso e con gli altri, anche se farà brutta figura, o la farà fare alla sua famiglia, eppure deve, altrimenti le righe che scriverà sapranno di imbroglio, fuffa.

E allora eccomi, vi dico due cose di cui non sono fiera.

La prima: sull’esodo ho letto poco, troppo poco. Tomizza, Madieri, più oltre non vado.

La seconda: la parola “esuli”, l’ho sempre sentita pronunciata male, come un insulto, una cattiveria.

Esuli!… pieni de bori, i ga avudo aiuti sussidi case, e ‘desso i vol anche i beni abandonai…

Era veleno nato da chissà dove, l’acredine dei poveri contro i poveri.

Io non capivo, ero piccola, ignorante nel primo senso del termine: ignoravo.

Chi fossero ‘sti esuli, che cosa avessero abbandonato, e perché…

Nessuno mi spiegava. Non ne sarebbero stati nemmeno capaci, né interessati in alcun modo. Nessun

istriano in famiglia, neanche alla lontana, nessuna consuetudine con quelle terre, nessuna vacanza del cuore, nessun mare amato, luoghi cari, abitudini istriane che molti triestini hanno; niente. L’Istria per la mia famiglia non è mai esistita. A voler andare molto indietro, i miei avi sono friulani da un lato, marchigiani dall’altro.

E di me, di me cosa posso dire? Sono nata, cresciuta, diventata grande, ho comprato una casa mia, ho superato la boa dei cinquant’anni – tutto nel raggio di cento metri. Non scherzo. Persino le scuole e il liceo erano appiccicati a casa. Non ho mai saputo cosa volesse dire dover forzatamente lasciare qualcosa, un oggetto, un giocattolo, un cortile, un panorama, un affetto. Non ho mai conosciuto cesure, mai una data che tagliasse in due la vita, che dividesse le cose conosciute in un prima e un dopo, in un di là e un di qua.

Non ho mai conosciuto distacchi, partenze senza ritorni. Le mie valigie sono sempre state solo da viaggio, la targhetta con nome e indirizzo, utile in caso di smarrimento all’aeroporto: questa sono io e questo è il luogo in cui potrete sempre trovarmi.

Da tutto questo, credo, nasce il mio disinteresse (che in quanto tale è sempre colpevole, intendiamoci; non cerco scuse, non ce ne sarebbero).

Sono onesta nel dire che se questo libro non l’avesse scritto Silvia Zetto Cassano, l’avrei lasciato passare come molti altri sul medesimo argomento.

Ma l’ha scritto Silvia, e allora no, non posso.

 

Silvia e io non siamo “amiche” – l’amicizia, certo, è ben altra intimità – eppure la sento vicinissima, mi piace il suo modo di scrivere, di ragionare, di parlare, di pescare nei ricordi minimi, di trovare i nessi nascosti delle cose. Quando ci si incontra, per caso, per strada, bastano poche battute per dire qualcosa di rigenerante – o che mi sembra tale – sulla scrittura, su questa ossessione che ci accomuna, ci tormenta e ci salva.

Credo e spero di poter dire che ci stimiamo.

 

Pochi giorni prima della presentazione di Diventerai al Circolo della Stampa, Silvia mi telefona e mi dice che le piacerebbe che ci fossi anch’io. Le rispondo che sono impegnata in emergenze familiari, non posso darti certezze, scusami sai…

Dialogherà con due giornalisti preparatissimi bravi colti. Ma sono uomini, dice un po’ desolata, mi sarebbe servita una donna, una donna avrebbe capito meglio certe cose…

Sono lusingata, ma tra me penso che abbia torto. Il lettore – se è attento, bravo, chirurgico – non ha sesso.

Poi inizio a leggere, e Diventerai mi agguanta. E così, in questa faccenda di esuli che mi appartiene così poco, ci casco dentro, tutta dentro, colpevolmente tardi, finalmente.

Questa è una storia che sento.

La scrittura di Silvia è solida bella e semplice (ma niente è più complesso della apparente semplicità), con rumori (lo squiii squiii delle rondini, un frrr che spaventa i passeri, lo stak stak stak degli sportelli del treno) ed espressioni dialettali che crepitano confortanti come un focolare.

 

La storia è, in fondo, semplice anch’essa: c’è una bambina che osserva, che cresce, che cambia. È un romanzo di formazione. Formazione alle prime amicizie, alle prime volte, alle responsabilità, alla giovinezza. Anche di formazione al compromesso della convivenza, all’imparare – si deve – a fare due chiacchiere, a scambiare una gentilezza anche dove non ce n’erano i presupposti, imparare a usare un “dober dan” anche se si era venuti via da lì proprio per non sentirlo.

«Non si sarebbe andati mai oltre la vicinanza, noi e quei la, ma mica si può vivere sempre ingrugniti».

Già, sagge parole: mica si può vivere sempre ingrugniti…

 

Bisogna imparare a stare al mondo, insomma: ricominciare, crescere, osare di vivere…

Corrono le pagine, e l’esodo c’entra sempre meno. Alla fine non c’entra quasi più.

(In questa storia dunque ci posso stare anch’io?, mi chiedo. Sì, anch’io bambina che osservava cresceva cambiava…).

Capisco ora quanto Silvia avesse ragione: certe cose un lettore uomo non può capirle, o meglio, capirle sì, ma sentirle no.

Che ne sa un uomo di quando, preadolescenti, piene di vergogna ci si incassa nelle spalle perché qualcuno ci ha detto che è venuta ora di indossare il reggipetto?

Che ne sa un uomo del primo fiotto caldo e del sedersi sul bordo della sedia per timore di macchiarsi?

Che ne sa un uomo dell’imbarazzo a lavarsi, se manca uno spazio discreto per farlo?

Che ne sa un uomo del costumino da bagno in filanca, che non asciuga mai e irrita la pelle dell’inguine?

Certe righe mi hanno colpita come un odore, un profumo che arriva all’amigdala e risveglia istantaneamente ricordi fisici che da decenni non si accendevano più.

Diventerai è – anche – la storia di un corpo in cui si sta bene, poi no, poi sì, un corpo che imbarazza e poi non imbarazza più, liberato, e non teme più il contatto e non teme più l’amore; è il corpo di tutte le bambine che diventano giovani donne. Un esodo in massa dalla regione dell’infanzia, verso terre nuove.

 

E c’è anche un’altra ragione per cui mi sarebbe piaciuto esserci, alla prima presentazione.

Nel 2018 Silvia Zetto Cassano fu mia ospite in radio e per due ore parlammo di tante cose.

Le ricordo tutte. È stata maestra, ha insegnato a leggere e scrivere a generazioni di bambini, poi ha

insegnato alla facoltà di Scienze della formazione, ha tenuto corsi di cinema, ha lavorato in radio, ha collaborato con Il Piccolo… Ricordo che col primo stipendio ha comprato la macchina per scrivere; che con la prima automobile ha provato una prodigiosa vertigine di indipendenza e libertà.

Ricordo che, avendo perduto il papà da piccola, ha portato un suo scritto da un grafologo, per conoscerlo meglio: sensibile, le dissero, fragile.

Ricordo che la nonna le raccomandava “involtìzite ben” (che meraviglia, questa parola, involtizarse, molto più calda di avvolgersi, coprirsi), e quella sciarpona sulla bocca era la protezione dal freddo e da tutti i pericoli del mondo.

Foresti (uscito nel 2016 per Comunicarte), di cui parlammo quel giorno, abbracciava cinque generazioni della sua famiglia. Silvia aveva fatto ricerche negli archivi, nelle parrocchie, per vent’anni aveva maneggiato questo groppo di storie – storie individuali intrecciate con la Storia – annodando fili e colmando strappi di memoria come una “mendaressa” fa col buco di una federa o di un calzino, perché occorre un tessuto sano per riposare bene e per andare avanti.

Il libro si chiudeva sui suoi genitori, Gemma e Sergio, e su lei stessa bambina di dieci anni, e su quella Capodistria che bisognava abbandonare, per venire qui e ritrovarsi, appunto,”foresti”.

Andrò avanti in un altro libro, mi disse alla fine, un libro che sto scrivendo ma… – sospirò – con quale fatica! Fatica e sigarette, come Garcia Marquez.

 

Ecco: il libro su cui stava lavorando già allora, era proprio Diventerai. Lo sento un po’ mio, anche solo per quella fugace confidenza.

La protagonista si chiama Marta, ma io so che si tratta di Silvia stessa.

La mamma si chiama Lidia, ma io so che si tratta di Gemma. La madre presto vedova, piena di rabbia per l’uomo che morendo giovane l’ha lasciata sola con due bambini, donna coraggiosa pratica spiccia energica dura (come avrebbe fatto a cavarsela, altrimenti?), che sa essere severa ma sa fare anche i giochi di mare, come una ragazzina allegra, e che forse sognerebbe anche un nuovo amore, ma poi poi… non è stato niente, un’amicizia, un cinema, niente.

Cambiare nomi e scrivere in terza persona: è quel tanto che basta per trovare il coraggio di dire la verità.

Parlare della propria famiglia, del tenero amore per la nonna, per la madre, ma anche dei silenzi degli attriti e delle porte sbattute – della distanza che come una mannaia in un momento o nell’altro cade tra genitori e figli – non è facile, anzi, è difficilissimo. Sembra di tradire il proprio sangue.

Né è facile parlare di se stessi.

Ho ammirato Silvia per l’abilità e la memoria, per lo spessore croccante delle descrizioni, rapide ma vivide (l’aggettivo giusto, il giusto dettaglio), come se fosse riuscita davvero a rivedersi piccola, a incontrarsi, a prendere il proprio giovane viso tra le mani mature per chiedere alla bambina che era: e allora, cosa mi racconti, cosa provavi, come vivevi, eh?

 

Diventerai si apre con Lidia che prende la decisione più sofferta. Capodistria adesso è Koper e loro non sono più graditi. Stanno andando via tutti, dice, andremo via anche noi.

Poi esce di casa, rabbiosa.

“Non tornar tardi”, le dice la madre, prima di mettere a letto Marta con un bacetto.

 

Nelle ultime pagine Marta è grande, ed è innamorata.

È diventata ciò che le era stato detto di diventare. Diventerai signorina, è diventata signorina, diventerai maestra, ed eccola maestra, perché lo ha detto la mamma (quattro anni di studio e a diciannove già puoi essere di ruolo e avere uno stipendio, non devi dipendere da nessuno, mai).

Ma è inquieta, vuole afferrarsi il futuro, crede nella bellezza, crede nel mondo, che sarà migliore, ne è certa.

«”Andremo via, io e lui”, vorrebbe dire alla madre, ma dice solo “Vado, mamma”».

«Non tornare tardi” si raccomanda Lidia, pur sapendo che è inutile».

 

Come l’anellino della nonna, col brillante («Era di mia mamma. Sarà per Marta, e lei poi lo darà a sua figlia»), come un oggettino prezioso, anche le frasi, proprio le stesse, passano di generazione in

generazione.

Non tornare tardi, dice una madre.

Ogni madre, dovunque, sempre.

 

 

Silvia Zetto Cassano

Diventerai

Battello stampatore, Trieste 2022

  1. 128, euro 16.00