Nane Zavagno, le ragioni del fare

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In una rassegna a Spilimbergo presentata la multiforme proposta figurativa e plastica del Maestro

di Diego A. Collovini

 

Scrivevo di Nane Zavagno a proposito della mostra “Arte – Architettura – Design”, allestita nel 1993 a Sacile: «E poiché la scultura di Zavagno è una scultura di modellazione, l’artista propone una riflessione su forme ideali, sulla loro logica e sul singolare rapporto con lo spazio, poiché esse non si rapportano direttamente con la dimensione del contenitore».

Ritrovo le stesse considerazioni ancora in particolare davanti alle opere di Zavagno presentate dalla città di Spilimbergo presentate nell’ambito della mostra “L’Arte, una vita”, curata da Angelo Bertani, che dallo scorso 25 febbraio al 16 aprile si è articolata in un interessante percorso espositivo (Palazzo Tadea, Palazzo La Loggia, Piazza Duomo, Palazzina ex Somsi), nel quale sono stati esposti i diversi aspetti della ricerca dell’artista friulano: dalle sculture ai disegni, dai dipinti ai mosaici, agli allumini. Una mostra – organizzata anche per festeggiare i novant’anni dell’artista – che si può certamente considerare come un’ampia panoramica della sua notevole produzione e un’esauriente rappresentazione del suo modo di operare. Non vi è, infatti, una netta separazione temporale nel suo lavoro; come non c’è una netta distinzione tra cicli, periodi o specificità stilistiche. Si avverte un costante sviluppo delle tematiche affrontate, un’evoluzione degli stessi linguaggi che non vanno nella sola direzione dell’affinamento stilistico, ma costituiscono un costante dialogo con la realtà, con quello spazio che non è mai lo stesso, poiché ogni scultura di rapporta con la realtà che la circonda, come in un relativo presente. Credo dunque che le mie considerazioni, nonostante la lontananza nel tempo, siano ulteriormente confortate da quando l’artista viene affermando nella conversazione con Alessandro del Puppo, registrata in video nel 2012 (vent’anni dopo Sacile) e riproposto pochi giorni fa presso l’azienda il Poggio di Villata di Fagagna.

Nell’intervista Zavagno più volte accenna alla scultura con una duplice finalità: da una parte un rapporto con la natura, con quello spazio che mai si fa contenitore statico e uniforme, e con l’architettura intesa come la produzione di forme in un contesto urbano; se da un lato vi è un dialogo diretto con l’ambiente naturale, dall’altro si tratta di pensare a una forma che ben si integri in uno spazio civico.

Il rapporto con la natura si concretizza all’interno di una realtà variegata e mutevole che risponde esclusivamente al ciclo delle stagioni. In questa trasformazione “stagionale”, le sculture di Zavagno vivono la stessa metamorfosi dell’ambiente. La trasparenza delle sue sculture induce a oltrepassare la mera forma, quasi minimale e dagli aspetti spigolosi, per dialogare con uno spazio naturale ricco di colore e vegetazione. La struttura plastica viene così inglobata dalla mutazione della luce e dei colore. Ma quando gli alberi sono spogli, le sculture in rete assumono una nuova e autonoma identità. Similmente agli alberi che mostrano l’intreccio di rami nudi, così le sculture di Zavagno appaiono come melodiche velature di un orizzonte dall’incommensurata dimensione spaziale.

Meno dialoganti sono le opere che si integrano nello spazio urbano. Sono forme che discretamente esistono, e che, grazie alla loro trasparenza, offrono allo spettatore il loro stato in “potenza”, di essere cioè, quello che lo spettatore percepisce dell’aleatorietà del loro essere e non essere. Si è più volte sollevato il problema della visibilità di queste sculture in ambito urbano, ma credo che questo stato di quasi invisibilità sia il giusto senso della loro esistenza. Spetta in ultima analisi allo spettatore attuare visivamente la forma nel contesto urbano, percepire e preordinare l’aspetto fenomenologico, in modo autonomo e al di fuori di personali interpretazione, perché, citando Gillo Dorfles (Estetica dovunque, Bompiani, 2022, p. 20), «il problema della “naturalità” continua ad essere attuale e scottante seppure ormai possiamo dare per superate alcune teorie psicologiche o sociologiche attorno ad “uno stato di natura” dell’uomo, o d’un “innattismo” delle nostre percezioni». Il complesso «rapporto tra equilibrio e disequilibrio delle sculture di Zavagno ripropone uno dei temi più complessi ed interessanti dell’architettura, in quanto non si tratta semplicemente di occupare uno spazio, quanto di offrire un’opera tridimensionale capace di confrontarsi con se stessa e di dialogare con la realtà che vive attorno, spesso limitata e che costringe la forma a un divenire dalle caratteristiche della materia.» Così scrivevo.

Un’attività creativa, quella di Zavagno, elaborata su forme ed equilibri e caratterizzata dall’opacità della trasparenza e dalla luce, tra ciò che viene percepito e ciò che viene nascosto. E questa è anche la problematica che affronta nei suoi disegni e nei suoi progetti. Sono le grandi tele dalle macchie nere, delimitate da precisi confini formali, che si alternano a spazi completamente chiari – ma non bianchi – stesi su una superficie densamente corposa. Non si tratta certo di colore (bianco e nero non sono colore ma assenza e presenza della luce), ma di materia in luce e materia in ombra, in quella profonda illusorietà prospettica, che l’artista conosce bene: la luce che irrompe dall’oscuro orizzonte o il nero buio che copre la luce. Un gioco di alternanze tra apparire e scomparire, un po’ come le sue sculture «dietro le quali non ci si può nascondere» – come afferma l’artista nel video Le ragioni del fare, conversando con A. Del Puppo –, ma da dietro le quali si appare.

 

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