NASCERE DIGITALI 7

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Sapere e saper fare

La nostra capacità di fare ha superato di molto la nostra capacità di capire e prevedere

di Giuseppe O. Longo

 

I giovani della generazione digitale usano gli strumenti tecnologici con abilità e disinvoltura, ma questa confidente manipolazione si accompagna a una profonda incomprensione del mondo tecnologico: quasi tutti usano mezzi, sistemi e dispositivi di cui non conoscono affatto il funzionamento intimo, né vogliono conoscerlo, adottando così un atteggiamento di tipo “magico”. Per gli utenti più giovani i dispositivi sono importanti per ciò che consentono di fare, non di capire. Mentre la scienza affronta la complessità del mondo, cercando di dominarla e se possibile di ridurla, la tecnologia nasconde la complessità dei suoi prodotti sotto una superficie amichevole e invitante: gli strumenti rispondono alla pressione di pochi tasti con prestazioni mirabolanti che sembrano scaturire dal nulla. L’ibridazione uomo-macchina sta equiparando i dispositivi artificiali agli organi biologici, per cui il loro funzionamento è sceso di livello, passando dalla zona della consapevolezza cosciente e tendenzialmente razionale a quella dell’inconsapevolezza tipica dei meccanismi corporei. Ciò avviene nel quadro di una profonda mutazione della cultura e della conoscenza. Rispetto all’apprendimento tradizionale incarnato nelle forme libresche e teoriche della scuola classica, si rafforza l’apprendimento per imitazione, tipico della bottega rinascimentale.

Non intendo certo sbrogliare l’intricatissimo rapporto tra scienza e tecnologia, ma solo rilevare che oggi, soprattutto grazie all’impiego delle tecnologie informatiche e della simulazione, la nostra capacità di fare ha superato di molto la nostra capacità di capire e prevedere. La teoria, come momento fondante della conoscenza, ha perso via via importanza. È accaduto infatti che nella seconda metà del Novecento la velocità dello sviluppo tecnico ha superato quello della scienza e sono stati costruiti parecchi dispositivi e sistemi che funzionano più o meno bene, ma per i quali non esiste una teoria scientifica, in senso tradizionale, che ne spieghi il funzionamento (per esempio il software, Internet, le biotecnologie…). Nei confronti della descrizione, spiegazione e costruzione degli strumenti la funzione essenziale che, dai Greci in poi, le teorie hanno avuto nella cultura occidentale è sostituita da un atteggiamento pratico e manipolativo che procede per tentativi ed errori. Questo trapasso ha portato a una frammentazione della cultura che è rispecchiata nella struttura reticolare e musiva del Web. E ha portato anche a un calo di iscrizioni nelle facoltà scientifiche, ancora percepite come templi della teoria.

Da sistematica e organica, la cultura diviene pletorica e parcellizzata, si alimenta dell’enorme capacità delle banche di dati e dell’illimitata velocità degli elaboratori. Non più apprendere, dunque, ma documentarsi, non più studiare ma consultare, non più organizzare il sapere intorno a concetti e idee di fondo, ma accumulare dati relativi a parole chiave, passando con disinvoltura da una tessera all’altra dello sterminato mosaico del Web.

Questo passaggio per alcuni segna un declino del sapere e della cultura, per altri, all’opposto, rappresenta un progressivo affrancamento dalle pastoie di un’erudizione rigida e formale, incatenata agli stereotipi di un mondo immutabile, e un itinerario verso una feconda libertà creativa che in ogni istante genera novità e invenzioni al pari dei fertili processi biologici. Per costoro, insomma, la tecnologia consentirebbe la gratuita e sontuosa creatività del bricolage evolutivo, mentre la cultura tradizionale, in particolare la scienza, sarebbe munita di un affilato rasoio di Occam, pronto a recidere tutto ciò che la logica ritiene superfluo, sovrabbondante, eccedente. E in effetti l’abbondanza, presente in biologia con sfarzosa varietà, si riscontra in tutte le opere dell’uomo: arte, moda, gastronomia, architettura, letteratura e, appunto, tecnologia. Tranne che nella scienza, almeno tendenzialmente. Insomma, le differenze tra scienza e tecnologia non potrebbero essere più profonde, anche se molti usano con incauta leggerezza l’endiadi tecnoscienza.

Che fare dunque delle macchine e degli strumenti che la tecnologia ci offre con insistenza? Macchine sempre più economiche, potenti, veloci… Abbiamo davvero bisogno di tutta questa potenza? Chi ci insegna a sfruttarla? È una nostra aspirazione autentica, usare questi dispositivi, oppure c’è, sotto sotto, una spinta imitativa e concorrenziale, per non parlare della pressione commerciale e pubblicitaria? Oppure si può addirittura parlare di una necessità autonoma e irrefrenabile del sistema uomo-tecnologia? Nel caso della scuola, che è paradigmatico e centrale, alcuni insegnanti si arroccano in difesa, e aspettano stoicamente che il tempo passi per andare in pensione e uscire dall’arena, altri si gettano nella mischia cercando di fare con l’informatica, in modo goffo e faticoso, ciò che facevano meglio prima. Altri impiegano le risorse della tecnologia a mano a mano che ne sentono il bisogno o che ne scoprono i vantaggi. Intanto, i tecnofili, e i giovani digitali, non si pongono tante domande e proseguono indefessi nel loro piccolo cabotaggio, mantenendo un profilo basso e sfruttando tutte le opportunità per conseguire i loro traguardi. (7 – continua)