Naufragio in vista di Lampedusa
Il Ponte rosso N° 38 | ottobre 2018 | teatro
Sara Alzetta continua la sua messa in scena di storie di donne diversissime tra loro: in una manciata di mesi ha proposto o riproposto al pubblico triestino La cameriera del Rex, di Pietro Spirito, storia di sottomissione e ribellione di una cameriera, La Maria Ferrar, testo di Manlio Marinelli che propone una versione italiana di una celebre ballata di Brecht, Guardiana dei sogni, che ripercorre su un testo di Corrado Premuda alcuni frammenti della vita di Leonor Fini. È ora la volta di Lampedusa Beach, opera della siciliana Lina Prosa prodotta dal Teatro Bonawentura, che ha debuttato nell’ambito della rassegna S/paesati lo scorso 20 ottobre al Teatro Stabile Sloveno di Trieste.
Questa volta la protagonista della narrazione scenica dell’Alzetta – che oltre ad essere l’interprete del dramma ne è anche regista -, è Shauba, una ragazza africana, nera, la cui vita, nella sua terra dove hanno cura di lei, come possono, la madre e la zia Mahama, si divide nei giorni in cui si può mangiare e negli altri “no”. Il mito edenico, la terra promessa che si propone a Shauba è Roma: è appunto per saperne di più sulla città che la ragazza viene mandata di tanto in tanto alla missione cattolica, dove i preti sono o dovrebbero essere informati sulla Sede apostolica e sulla città che le sta attorno.
Si risolvono a farla partire, su indicazione di Mahama, in un giorno “no” e il resto della storia è quella che dovremmo sapere tutti, se minimamente fossimo attenti a quell’umanità dolente, umiliata e sconfitta che s’imbarca nelle carrette stipate di passeggeri paganti e sfidano le acque del Canale di Sicilia, per approdare a Lampedusa, porta dell’Eden capitalista, quando almeno ce la fanno le imbarcazioni strapiene. Quando invece non ce la fanno, come sovente avviene, rimane l’acqua, sempre più scura e più fredda, via via che i corpi vinti affondano lentamente nel blu, a cercare la quiete del fondo marino, in un approdo diverso da quello in cui avevano creduto.
Il dramma di questa gente è messo in scena dalla Alzetta con questo Lampedusa Beach che di fatto capovolge il punto di osservazione, spostandolo dai nostri morbidi e avvolgenti divani alla calca indescrivibile dei barconi scassati, alla promiscuità, al lezzo, all’esposizione al sole e al freddo, alla violenza di scafisti senza scrupoli che arrotondano con gli stupri delle ragazze accatastate a bordo il compenso in denaro estorto ai disgraziati trasportati.
La storia si sviluppa per mezzo di un lungo monologo che assume quasi le fattezze di una lettera a Mahama, onnipresente nei vocativi della giovane che a lei si rivolge per smussare la solitudine che la avvolge sia nella calca sulla coperta della precaria imbarcazione, sia più tardi, nell’acqua e sott’acqua, quando, ormai in vista di Lampedusa, inizierà a fluttuare verso il fondo mantenendo ancora l’acutezza del suo osservare, che riesce perfino a trovare spesso un filo d’ironia nei paradossi della sua dura condizione.
La regia, che si avvale anche di video realizzati con l’ausilio di Eugenio Pini, ma soprattutto l’alto profilo di competenza attoriale dell’interprete concorrono a tenere con forza l’attenzione degli spettatori in uno spettacolo di non comune durezza riguardo alla vicenda che vi viene narrata. Chi scrive ha avuto la possibilità di assistere a un’anteprima dello spettacolo, una lettura energica e persuasiva da parte dell’attrice che, allora praticamente invisibile a chi l’ascoltava, poteva affidarsi soltanto a una sapiente impostazione della propria voce per accompagnare il pubblico in un percorso narrativo fortemente dinamico e coinvolgente. A quella base sonora si sovrappone a teatro il corpo dell’attrice, il fluire dei suoi gesti che completa ed esalta il testo proposto dalla voce, al punto che a tratti, sullo sfondo delle immagini proiettate, Alzetta offre la sensazione di muoversi sott’acqua, tale è la capacità di persuasione del suo agire sulla scena. Da vedere assolutamente.