Non sono solo canzonette

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Un’intelligente collegamento tra la realtà sociale e politica del paese e l’evolversi del gusto musicale

di Walter Chiereghin

 

Impossibile non viverci dentro: la canzone ci viene riproposta decine di volte al giorno, dalla televisione, dalla radio, dal canticchiare sovrappensiero di un collega, dalla memoria: «sarà capitato anche a voi / di avere una musica in testa…» come faceva appunto la popolare sigla dell’edizione 1968 di Canzonissima. Versi, il più delle volte banali, che riaffiorano nella memoria, magari dopo decenni di oblio, e ti accorgi con stupita meraviglia che non sbagli una parola, come l’avessi ascoltata qualche minuto prima. E poi sono legate alla vita di ciascuno di noi: quelle che cantava nostra madre quando eravamo ancora piccoli, quelle che ci hanno accompagnato in qualche amore della nostra adolescenza, quelle che abbiamo ballato, quelle che cantavamo a squarciagola in gita con gli amici…

A mettere un po’ d’ordine in questo mare di canzoni e di motivetti che disordinatamente riaffiorano nella mente di noi, non addetti ai lavori, ci ha pensato Gino Castaldo, giornalista e critico musicale di Repubblica, con il volume Il romanzo della canzone italiana, recentemente pubblicato da Einaudi. Si tratta di un lungo saggio, da leggersi tuttavia come un romanzo, adeguandosi a quanto suggerisce il titolo, preferibilmente davanti a un computer collegato col sito di You Tube, per seguire il filo della narrazione anche per mezzo della musica. O magari per ascoltare i motivi che non si conoscono, scoprendo che essi sono inaspettatamente pochissimi, comunque assai meno di quanto avremmo immaginato, ritenendoci ascoltatori distratti e occasionali.

La storia che ci viene narrata parte da lontano, con due brevi antefatti, il primo dei quali riguarda la canzone napoletana: «le prove generali che il paese scoprirà molto più tardi» tant’è che tutti conoscono ancora oggi canzoni come Te voglio bene assaje, uscita nel 1837, poco meno che due secoli fa. È un microcosmo con insospettabili diramazioni quest’ambito napoletano, Tant’è che per esempio un grande classico quale Santa Lucia (1849) è stato ripreso da Elvis Presley e rielaborato poi da Francesco De Gregori, che ne ha fatto tutto un’altra cosa.

Il secondo antefatto riguarda gli anni Cinquanta, e rievoca l’immagine di «un paese paternalista e bonario, con tante ferite non ancora rimarginate, con picchi di sentimentalismo e rassicuranti provincialismi». Sono gli anni della Democrazia Cristiana, imperante a partire dal 1948, con la diffusione delle canzoni lungamente affidata solo alla radio e poi, agli albori delle trasmissioni televisive fruite collettivamente nei bar e nei cinema, con un unico canale ferreamente controllato dal potere politico e da una censura occhiuta, conformista e bigotta. In un quadro giudicato col senno di poi assolutamente deprimente, tra Grazie dei fior, Papaveri e papere e Vola colomba solo singole personalità riuscirono a ritagliarsi uno spazio quasi trasgressivo sia dal punto di vista musicale che da quello dei testi, com’è stato per la meteora di Fred Buscaglione o per l’ironia di Renato Carosone che mischiava jazz e dialetto, ad esempio nel boogie di Tu vuo’ fa’ l’americano.

La storia narrata da Castaldo entra nel vivo allorché, «all’inizio del 1958 tutto è pronto per cambiare, e tutto cambia » e «L’Italia impara a Volare ». Dalla ribalta del Festival di Sanremo erompe Domenico Modugno con Nel blu dipinto di blu, scritta assieme al suo amico Franco Migliacci. È un successo di dimensioni planetarie, ventidue milioni di copie vendute nel mondo, in testa per cinque settimane anche nelle classifiche degli Stati Uniti, ripresa da numerosi altri interpreti, di qua e di là dell’Atlantico. Un dipinto di Chagall fatto musica, una premonizione del boom economico che avrebbe trasformato da lì a poco l’Italia, un autentico Big bang nella canzone di consumo italiana, destinato a durare per molti decenni, probabilmente anzi per sempre. «Capita, a volte, che una canzone riesca a incantare una nazione intera, e quando accade c’è sotto qualcosa di magico, una combinazione felice di elementi, un demone benigno che attinge al miracolo della condivisione collettiva». La citazione è in effetti estrapolata dal capitolo dedicato a Lucio Battisti, ma è sicuramente adattabile anche a Volare, a ulteriore testimonianza di come tutto si saldi, anche nell’ambito della canzone, com’è nel resto della vita.

Nello stesso anno di Volare, Tony Dallara con la sua Come prima, inaugurava la stagione dei cosiddetti “urlatori”, segnando con ciò una netta frattura con la più compassata schiera dei tradizionalisti. Si trattò di un breve conflitto generazionale, che risentiva di alcune suggestioni provenienti dall’America, anche se deprivate di ogni intento barricadiero. Vale la pena notare che di questo gruppo fecero parte ai loro esordi due giovani interpreti destinati a un lunghissimo duraturo successo, il Celentano di 24 mila baci, secondo a Sanremo nel 1960 assieme a Little Tony, e la grandissima Mina, con Nessuno e poi con Tintarella di luna.

Siamo entrati con questo nei mitici anni Sessanta. Cominciava a cambiare, assieme al paese, all’economia che da rurale si scopriva industriale, anche la modalità di fruizione della musica leggera. La televisione, che andava sottraendo alla radio il monopolio della diffusione via etere, e poi i 45 giri che diventavano oggetti presenti in quasi ogni casa, i mangiadischi per mezzo dei quali si potevano portare in giro le canzoni preferite e ancora i juke-box, che, c’informa Castaldo, erano 9.000 nel 1960, 24.000 nel 1965, crescendo fino ai 35.000 del 1972.

Iniziava anche la stagione dei cantautori, che da allora in avanti conobbe un crescente consenso di pubblico, fino ai giorni nostri, ma l’esordio non fu dei più semplici, costellato di drammi personali e perfino, come nel caso di Luigi Tenco, da un’autentica tragedia. Nasce a Genova il primo formidabile nucleo: «non sarà un caso che l’unico grande festival della canzone si sia annidato poco lontano da lì, ma alla fine dei Cinquanta pesava soprattutto la vicinanza con la Francia e l’influenza che derivava da quelle canzoni “diverse”, capaci di aprire nuovi mondi stilistici». Si è parlato in seguito di una “Scuola genovese”, della quale fecero parte per nascita o per cooptazione personalità quali Bruno Lauzi, Umberto Bindi, Gino Paoli, il giovane Fabrizio De André, il piemontese Luigi Tenco, l’istriano Sergio Endrigo. Basta questo elenco breve per riconoscere quanto da lì è venuto alla canzone d’autore italiana, per ciò che ciascuno di loro inventava per sé o anche per conto terzi, com’è stato per Il cielo in una stanza, portata al successo da una strepitosa Mina, o, sempre grazie a quella che l’autore definisce «la ragazza dalla voce più bella del mondo», per La canzone di Marinella, che convinse De André a dedicarsi a tempo pieno a scrivere canzoni.

Il volume di Castaldo non si limita ad essere un libro di storia, ma spazia tra una geografia che – ricordiamo – è partita da Napoli, ma si articola tra Genova, e poi Milano, “capitale morale” anche dell’industria discografica grazie alla Ricordi, ma anche la città della Vanoni, che sospinta da Giorgio Strehler si produrrà nelle sue “canzoni della mala”, e quindi anche di Gaber e Jannacci, che tra molto altro interpreterà nel ’68 Ho visto un re, su testo di Dario Fo all’epoca ancora lontano dal premio Nobel. Senza tacere di Bologna, nell’Emilia di Nilla Pizzi, di Morandi, di Dalla, di Guccini, del piccolo coro dell’Antoniano, dello Zecchino d’oro, di Pavarotti e di Zucchero, una regione «dove nei campi, com’è ormai ampiamente dimostrato, si coltivano anche rock e soul». E poi sarà anche la volta di Roma, la città del mitico “Piper”, dove esordì Patty Pravo e dove inizia anche la storia di Renato Zero, la Roma capoccia di Antonello Venditti, ma anche quella di Porta Portese di Claudio Baglioni.

Ma stiamo sconfinando negli anni Settanta, mentre moltissimo ci sarebbe da dire del precedente decennio. Almeno che decollarono con clamoroso successo, all’esordio dei Sessanta, due figure di quasi adolescenti, Rita Pavone e Gianni Morandi «improvvisamente l’Italia “vede” i giovani, li riconosce , li accetta […] sono il lato “pulito” e candido di una ribellione giovanile che tra il 1962 e il 1964 comincia appena a prender forma, fomentata dai fuochi incendiari che vengono dalla musica angloamericana». Si preparava l’avvento del beat, che tracimava dall’ambito strettamente musicale per divenire stile di vita, riti di riconoscimento, allontanamento dalla generazione dei genitori. Il modello, naturalmente, era la Liverpool dei Beatles e importammo anche inglesi come Mal e i Pimitives e i Rokes. Fu la stagione dei complessi, oltre ai Rokes, l’Equipe 84, i Camaleonti, i Dik Dik, i Giganti, i Nomadi, che poterono avvalersi del genio nascente di Guccini, una miriade di gruppi minori o minimi. Si assistette in quel decennio, a una lotta sorda tra due concezioni della realtà e della vita associata che non potevano non avere un riscontro anche nel mondo della canzone: Sanremo vinto da un campione del melodico di derivazione operistica quale Luciano Tajoli nella medesima edizione in cui Celentano si scatenava in 24.000 baci, la terza edizione di Canzonissima affidata sconsideratamente a Dario Fo e a Franca Rame che non poteva finire se non con l’abbandono dei due, esasperati da una censura ottusa e asfissiante.

Sono Guccini e De André «a caricarsi sulle spalle il compito di traghettare la canzone d’autore verso il “rinascimento” degli anni Settanta», ma noi, per mere ragioni di spazio, fermiamo qui la succinta cronaca, rimandando chi crede alla lettura del libro, che prosegue per tre densissimi decenni ancora, arrestandosi alle soglie del nuovo del millennio.

È un libro denso di informazioni, di aneddoti, di appunti biografici, ma soprattutto è un’intelligente collegamento tra la realtà sociale e politica del paese e l’evolversi del gusto musicale, due percorsi che procedono affiancati, al punto che talvolta diviene indistinguibile discernere se è la società a determinare le mutazioni nelle canzoni o viceversa. Nonostante qualche svarione ascrivibile probabilmente a un editing non del tutto impeccabile (a p. 71 vengono assegnate a Gino Paoli le principali canzoni di Enzo Jannacci), nonostante si avverta la mancanza di un indice dei nomi, Il romanzo della canzone italiana si qualifica non soltanto come un’intelligente analisi di cosa è stata la canzone nella seconda metà del ventesimo secolo, ma soprattutto delle interconnessioni tra storia della canzone e la realtà sociologica di un paese. Fino al punto di farci riflettere su una cosa che ha scritto Roberto Vecchioni, in una sua Conversazione con una triste signora blu: «non è la vita ad ispirare le canzoni, / come credi tu… son le canzoni che costringono la vita / ad essere com’è /e come non è…».