LETTERATURA NELLA VITA DI ROBERTO PAGAN

| | |

Un mare d’inchiostro, recente raccolta di saggi del letterato triestino

Uomo integrale di fronte a un oggetto che integralmente esprime l’umanità degli scrittori

di Fulvio Senardi

 

Ci giunge come un messaggio nella bottiglia Un mare d’inchiostro di Roberto Pagan, portando echi di epoche che sono state anche nostre ma che rischiavamo di dimenticare (ancorché la prima Repubblica non si scordi mai, come assicura Checco Zalone, il malinconico mito trash della gioventù senza futuro). “Transfuga”, com’è nella tradizione della più vivace intellighenzia triestina negli anni della città diventata provinciale e di fede scudo-crociata (penso a Renzo Rosso, Fery Fölkel, Bruno Chersicla, ecc.), e “dilettante” della penna mentre intanto si guadagnava il pane con il mestiere dell’insegnante, stimolante per il cervello e il cuore quanto ingrato per la borsa, Roberto Pagan scopre la sua vocazione di critico letterario e poeta quando è già uomo dalle tempie albicanti (ma a marezzare una chioma a tutt’oggi invidiabile). Il volume, un tomo poderoso di 500 pagine, è diviso in quattro sezioni che raccolgono saggi e interventi di differente lunghezza pubblicati in diverse sedi, preferibilmente riviste, e documenta il furor interpretativo di un lettore forte che si sforza di capire e di far capire, perché leggere e scrivere è per lui faccenda esistenziale: c’è una parte dedicata alla forme del comico, strutturata per saggi piuttosto ampi e di inappuntabile metodologia (ma su questo ritorneremo); una rubrica di Saggi e vagabondaggi, che ruota, diversamente declinando le modalità di lettura, a sfiorare temi di estetica e di poetica; una sezione più dichiaratamente personale dove Pagan, pur senza mai tradire l’impegno di oggettivazione degli spunti critici, manifesta un coinvolgimento diretto e registra qualche affioramento della memoria (diamine, qui si tratta della cultura e degli scrittori di Trieste, quel suo albero genealogico intimo e peculiare sul quale, per parafrasare alquanto liberamente Jean Cocteau, ciascun corvo, se trova il ramo giusto, può cantare da usignolo); la critica militante, infine, dove Pagan – costeggiando le fatiche degli amici, fatiche in prosa, e duplicemente, in poesia: tanto sul versante italiano quanto su quello dialettale… de se fabula narratur – istruisce le pratiche del bello, spesso nello spazio di pochissime pagine, ovvero in forma quasi elzeviristica, e senza cadute nell’umoralità né concessioni partigiane ma con la fermezza dell’osservatore imparziale, vagliando caso per caso le ragioni dell’arte (nel senso schilleriano di categoria estetica come garante dell’unità dell’uomo: sentimentale e morale innanzitutto). Attenzione però: il quadrante che abbiamo tracciato non prevede compartimenti stagni. A renderlo unitario c’è l’angolo visuale, governato da un occhio penetrante e bonario venato di cordiale umorismo; lo stile, di registro alto ma senza acuti verso le cime impervie del tecnicismo né incline ai codici per iniziati, ancorché non sordo alle ragioni eufoniche dell’armonia (un ottimo italiano, insomma, quello che vorremmo sentire pronunciato nelle ufficiali “case della lingua”, i media); e, in special modo, un timbro che fa tutt’uno con la metodologia di cui Pagan è seguace. Alla larga da elitistiche scuole esegetiche che sezionano i fatti dell’arte con un gelido bisturi, Pagan fa sentire l’uomo in ogni pagina: pagina nostra sapit hominem, ha scritto con piena consapevolezza un Antico e Pagan segue l’esempio mentre sonda, ad ampio raggio, ragioni e risultati della letteratura. Uomo integrale di fronte a un oggetto che integralmente esprime l’umanità degli scrittori. Viene da pensare a De Sanctis: sta riflettendo su Machiavelli nella Storia della letteratura italiana quando sente echeggiare le campane che salutano l’entrata dei bersaglieri a Roma, e quel sonoro annuncio di una nuova Italia entra nel discorso critico, si fa storia vivente e simbolo di una teleologia. Pagan, italiano del terzo Millennio, è sufficientemente smagato per non credere alle magnifiche sorti e progressive: non per questo evita di prendere posizione nei confronti di un presente alquanto disamato, infastidito (o peggio, orripilato?) dal «pozzo antiumanistico che sta al centro della nostra società» e pronto a combattere con i suoi mezzi di lettore colto e di appassionato pedagogo «contro l’arrogante incultura in cui siamo immersi: degli indotti come dei dotti»; ricordando, continua nella stessa sede, l’esempio di «saggio e [di] maestro di civili costumi» di Armando Patti, il poeta di cui celebra la lunga ma appartata parabola, come a rivendicare il valore della letteratura, di certa letteratura, quale segnacolo di dignità umana. Il metodo dunque, per riprendere, come promesso, un discorso lasciato a metà: inizieremo dicendo che per Pagan metodo è tanto moralità intellettuale quanto equilibrio (e autonomia) di giudizio, tanto capacità di collegamenti interdisiciplinari ad ampio raggio quanto obbedienza a paradigmi valoriali illuministico-progressisti. Maturato nel crogiolo post-resistenziale del crocio-gramscianesimo, uno storicismo non teleologico, attento alle distinzioni e alle svolte epocali quanto ai nessi necessari di società e cultura, e, più di ogni altro modello di critica, in grado di trovare la quadra tra interpretazione storico-letteraria, impegno politico-civile e spirito pedagogico, Pagan resiste tanto alle offensive del falso oggettivismo strutturalista o semiotico quanto alle sirene del relativismo, che affiorano e gorgheggiano sull’orizzonte dell’estetica della ricezione e delle più recenti mode interpretative di radice post-moderna e post-coloniale, in perfetta sintonia con la deregulation post-ideologica per cui destra o sinistra pari sono (conta, dice l’uomo di Rignano, la velocità di movimento verso il “nuovo”); senza negarsi, d’altra parte, al valore musicale e fono-simbolico della poesia, una componente che fa entrare nella sua ricetta critica con fine sensibilità ed encomiabile cautela. È dunque in primis alla storia come sostanzialità che Pagan appoggia la sua visione dell’arte, prendendo le distanze dalla sentenza di Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli, elevata invece a decreto da tutti i settatori della ”debolezza del pensiero”: «il mondo vero è diventato favola». Da qui una tensione interpretativa che demistifica e svela scavando nella concretezza della storia, che non svapora in figure di gioco, ma resta ancora per lui storia di uomini, di classi, di nazioni, fatta di intelligenza e di passioni, di progetti e fallimenti, di vizi e di virtù, da sviscerare con un sapere di verità (per quanto non chiuso a ulteriori elaborazioni) animato da una disciplina razionalistica ed etica che non si rassegna a ridursi a prospettica e revocabile opinione, come spesso nella babele della semiosfera. Le interpretazioni che Pagan squaderna di Angiolieri, Pulci, Folengo, Berni – una linea del comico perfettamente consentanea a un intellettuale arguto che ama il balsamo dell’ironia e, di conseguenza, l’understatement autoironico – e poi di Parini, Leopardi, Ariosto, Gozzano, Montale (e mi fermo alla prima delle quattro sezioni) sono riusciti sforzi di avvicinamento materiati di sensibilità ed empatia, sull’orizzonte di un approccio che sonda, smonta e ricompone, con un doppio andamento ermeneutico, i materiali storici, culturali sentimentali e letterari di cui l’arte fa sostanza compatta. Tanto più compatta quanto più grande la statura dello scrittore. Bisognerebbe citare, e largamente. Mi limito a due prelievi. Nel primo Pagan corregge l’interpretazione romantica di Angiolieri come “poeta maledetto”, per mostrare invece quanta consapevolezza retorica sovrintenda la creazione da parte del Senese del proprio personaggio di cinico scroccone, esemplare per ingratitudine e maldicenza nel ribaltamento dei modelli allora attuali della”cortesia” e della “liberalità” (in altre parole un Federigo degli Alberighi rovesciato): «se stiamo al libro nel suo complesso, non ci vuol molto a capire che si tratta di una maschera, di una caricatura, un gesto teatrale, da istrione matricolato: che insomma Cecco poeta è uno che strizza l’occhio a Cecco personaggio, e gonfia esaspera enfatizza quel qualcosa che pure c’era magari nel fondaccio della sua indole, come sogno malandrino o aspirazione perversa […]; ma che soprattutto c’era nella tradizione del genere giocoso, fin dai tempi della tarda latinità, passato attraverso i lazzi, i canti, le parodie, i vituperia dei goliardi e dei giullari». Cose che abbiamo già sentito ma che vengono riaffermate con energia ed eleganza, contro ogni risorgente tentazione semplificante. Il secondo prelievo è invece di tutt’altra natura e provenienza: siamo nella terza sezione, quel Quadrante nord-est dove Pagan approfondisce i temi della triestinità, con una predilezione per Umberto Saba, come a pagare un debito di gratitudine per colui che gli diede, nel fatale 1957, «quasi un’investitura», quando il giovane critico un po’ «saccente» ma non privo di timore reverenziale di fronte al Grande, fu introdotto nella stanza d’ospedale dove il vecchio poeta, tra accidia e lampi di genio, consumava i suoi ultimi giorni. Quasi a risarcimento per quelle riflessioni sui Versi militari che avevano conquistato al giovane Pagan l’ambita e temuta convocazione a Gorizia, esattamente cinquant’anni dopo, nel 2007, giunge infatti la pubblicazione di un nuovo contributo sulla raccolta del 1908: «è soprattutto il lessico a offrirci le aperture più innovative, le punte più aguzze, le linee più deformanti, umoristiche o grottesche, i tratti di un vivace espressionismo che mi pare la dimensione più originale di questa raccolta e unica in fondo nell’itinerario sabiano, perché la cifra stilistica del poeta andrà assestandosi in seguito in forme più armoniose e composte», spiega Pagan dopo aver illustrato le «novità ritmiche» che fanno dei sonetti militari cosa alquanto nuova rispetto alla tradizione. E continua: «questo lessico non solo emerge naturalmente da tutto un repertorio legato alla vita di caserma […] ma s’avviva continuamente nel contrasto, voluto e cercato, tra il quotidiano e l’aulico. Non solo: gli elementi letterati si enfatizzano per un ricorrente citazionismo [e] tutto ciò in stridente contrapposizione con espressioni gergali o popolaresche». Abbiamo selezionato e intarsiato. Ma il campione, per breve che sia (Il Ponterosso si riserva, in uno dei prossimi numeri, di offrire ai lettori un saggio di Pagan tutto intero), è eloquente. Attenzione al fatto artistico nei suoi versanti di stile e contenuto, nella sua dimensione storica e universale, etica e civile. Seguendone il percorso intellettuale, se è il caso, ma senza incrostazioni intellettualistiche. Concludiamo: invitando ad aprire questo libro che, composto per saggi, ha anche il merito di consentire una lettura per pause e riprese, non resta che ringraziare Pagan; ci ricorda che, anche fuori dai portici dell’accademia, esistono modi “virtuosi” di scrivere di letteratura, attività insieme individuale e sociale, che intrinsecamente partecipa della sostanza e del destino della civiltà. Uno dei principi-speranza da riaffermare per il suo valore altamente pedagogico e nobilmente estetico-civile: linea di resistenza, in fondo, contro la doppia pressione tecnologica e consumistica che investe l’odierno soggetto secolarizzato. E in modo particolare in un Paese più che altrove degradato e incolto, dove un’ignoranza antica si somma alla barbarie nuova, e gli internauti partecipano ai social senza aver prima conosciuto l’abbecedario. Da noi i media dell’immagine, che rappresentano sempre più la “scuola” e il “doposcuola” della società di massa non sanno che farsene della letteratura (se non sui canali del digitale che nessuno guarda), e le “terze pagine” di giornali che ancora rappresentano per tanti il breviario di prima mattina banalizzano il fatto letterario riducendolo alla retorica dell’“evento” e dello “straordinario” (giusto per capire, e si prende un solo caso per tutti: Dante soffriva di narcolessia?, – e da qui il sonno, il sogno, le visioni secondo l’ipotesi del neurologo Plazzi, a quanto si è letto l’ 11 marzo 2016, in bella evidenza per titolo e immagini sull’intera prima pagine di cultura del Piccolo di Trieste, per la firma di un figlio d’arte, Michele A. Cortellazzo, che ha ereditato a Padova la cattedra del padre Manlio). Senza preclusioni di genere – anche se non sembra condividere quel fanatismo per il giallo e per il noir che tinge di colore univoco le classifiche di vendita dei libri e orienta sui giornali le pseudo-recensioni formato francobollo – Pagan ci ricorda una strada antica, esprimendo una nostalgia che dà accesso al futuro. Gli dia retta chi vuole, ma intanto prestiamogli ascolto.

 

Roberto Pagan

Un mare d’inchiostro

Pagine su pagine e altri cabotaggi

Cofine editore, Roma 2015

  1. 496, Euro 25