Ombelicali

| | |

di Giuseppe O. Longo

 

 

Nella sezione B della scuola media Dante, gli alunni si dividevano in carogne e ombelicali. Noi carogne avevamo strappato a morsi il cordone ancor prima di venire al mondo, mentre gli ombelicali erano sempre legati alla madre, che li comandava a bacchetta con uno strattone di quel cingolo. C’era poi, in mezzo, un gruppo di studenti amorfi e sonnacchiosi, né carne né pesce, di genere neutro, che non vedevamo neppure. Prendevamo di mira gli ombelicali, e gliene facevamo passare di tutti i colori. Un anno, in terza, ci mettemmo a rubare le lampadine dei fanali delle biciclette, e ci divertivamo un mondo, anche se non sapevamo bene come impiegarle, ma era l’impresa che ci eccitava: richiedeva un minimo di destrezza e comportava un certo qual rischio se fossimo stati colti sul fatto da uno di quegli omaccioni apoplettici dai pugni smisurati e dai baffi spioventi che pedalavano lenti lenti per le viuzze del centro. Un giorno noi cancheri fummo chiamati in presidenza. Avviandoci all’incontro con il preside Tarcisio Santon ci domandavamo la causa di quella convocazione, ma io avevo la sgradevole sensazione che ci fossero di mezzo i furtarelli di lampadine. Il preside Santon fumava di continuo ed era sempre avvolto in una nube grigiastra, quel fumo non solo gli incatramava i polmoni, ma gli rovinava i denti, che erano d’oro e d’acciaio e quei pochi ancora suoi avevano un color melanzana che molto c’impressionava, e non lo salvava dalla devastazione del tabagismo il lungo bocchino che teneva stretto tra le labbra. Il preside si sedette alla sua vasta scrivania e cominciò a parlarci di Socrate, del codice di Hammurabi, di Mosè e delle sue tavole, del contratto sociale e del Leviatano, dell’editto di Rotari, del buon selvaggio e della necessità di osservare le leggi. Dopo un po’ non l’ascoltavamo più, e io coltivavo la mite speranza che ci avesse chiamato in presidenza per fare sfoggio della sua mostruosa cultura. Ma d’un tratto tacque, prese fiato e all’improvviso domandò, che cosa ne fate delle lampadine che rubate? Seguì un’interminabile paternale, molto pacata peraltro, tra sbuffi di fumo, scatarramenti e lampi di occhiali e di denti metallici, poi il preside ci congedò, ordinandoci di smetterla, ma senza punirci. Ricostruimmo l’accaduto: uno degli ombelicali doveva averci sorpresi a svitare le lampadine (rubare ci sembrava un termine inappropriato), aveva riferito la cosa a suo padre, che certo era o era stato un ombelicale come il figlio e che aveva avvertito il preside. Ma chi aveva fatto la spia? Per scoprirlo progettammo di istituire un tribunale speciale che sarebbe stato presieduto da Zamboni, un ragazzone stupido come una capra ma forte come un cavallo, figlio di un mugnaio e abituato a trasportare sacchi di farina da cinquanta chili. Stavamo per dare inizio all’attività inquisitoria e a sottoporre ciascun ombelicale a un interrogatorio stringente, accompagnato da qualche scapaccione somministrato da Zamboni, quando nella mente bovina di costui lampeggiò un’idea: gli ombelicali processati avrebbero riferito tutto alle loro famiglie e ne sarebbe nata una vera e propria persecuzione dalla quale non saremmo usciti vivi. Perciò soffocammo la nostra legittima brama di vendetta e trangugiammo il boccone amaro della sconfitta. Gli ombelicali, che certo avevano temuto la nostra rappresaglia, esibirono nei nostri confronti una certa malcelata spavalderia, alla quale contrapponemmo minacce verbali e qualche sberlottone. Di lì a un mese la scuola terminò e le vacanze ci dispersero tutti, carogne, ombelicali e minutaglia di mezzo priva di nerbo. L’estate ebbe su di me un certo effetto di maturazione, mi sentivo meno incline alla ferocia ed ero disposto a tollerare la vista degli inermi ombelicali, la loro belante sottomissione non mi spingeva più ad infierire. Eravamo ormai al primo anno delle superiori e la nostra classe si disperse tra i vari istituti. Di lampadine non ne rubai più, ma riconoscevo sempre un ombelicale a colpo sicuro.