Poeti in trincea
Fulvio Senardi | Il Ponte rosso N° 36 | luglio-agosto 2018 | poesia
Un’importante ristampa: l’antologia della poesia nella Grande Guerra curata da Andrea Cortellessa
di Fulvio Senardi
Mentre, anche nelle ripercussioni su vari terreni di ricerca, storico e letterario innanzitutto, va consumandosi l’anniversario della Grande Guerra (un po’ in sordina per la verità, dopo un ultimo ritorno di fiamma l’anno del centenario di Caporetto), riappare meritoriamente un libro di cui abbiamo sentito la mancanza mentre spesseggiavano le celebrazioni e in grandi e piccoli centri culturali, sedi universitarie, città-martiri si sondava qualche nuovo filone d’indagine sull’ecatombe del 15-18 o si ripiegava, più frequentemente, sul più comodo discorso mitografico e conformista. Mi riferisco a Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale, a cura di Andrea Cortellessa. Bruno Mondadori, l’editore del 1998, l’anno della prima uscita del volume, ha passato il testimone a Bompiani, che ripubblica il libro – a veste, nella sostanza, immutata – senza la prefazione di Mario Isnenghi ma con una triplice aggiunta: una nota alla presente edizione (in cui il curatore dà conto dei nuovi inserimenti: sette autori e alcuni testi di poeti già antologizzati), il saggio di Cortellessa Il senno di poi ed un documentatissimo Foglio matricolare con schede biobibliografiche di completezza strabiliante (nell’epoca dell’incompetenza, del sentito dire, della storia raccontata con piglio fin troppo sciolto dai giornalisti, del “ti cito a prescindere perché sei un amico”).
Apparso in anni non sospetti (ma meno che mai pacifici: sobbolliva la guerra in Kosovo, scaldavano i motori i bombardieri ad Aviano) Le notti chiare hanno fatto da apripista all’orgia di pubblicazioni che sarebbe seguita di lì a qualche anno, proponendo un approccio nuovo e perfino provocatorio. La poesia italiana nella Grande Guerra veniva suddivisa secondo un’inedita centuriazione tematica, a partire dagli stati d’animo e dagli accenti intellettuali-emotivi che caratterizzano i testi: ecco dunque la “guerra-festa”, la “guerra-cerimonia”, la “guerra-comunione”, la “guerra-riflessione”, la “guerra-percezione”, la “guerra-follia”, la “guerra-tragedia”, la “guerra-lutto”. Sfasati categorialmente, perché non attengono ai contenuti psico-emozionali, ma registrano un dato di fatto topografico o temporale, la “guerra lontana” e la “guerra ricordata”. In più: un antefatto (la “guerra attesa”) e una conclusione (la “guerra postuma”, sezione ora fortemente rimpolpata). Grande il rischio: sfarinare gli autori in diverse sezioni sfocando la storicità e l’omogeneità dei percorsi individuali significa assumersi la responsabilità (ai limiti: l’arbitrio) di dissociare ambivalenze di fortissima escursione, inutile dirlo, nell’esperienza estrema di una costante esposizione alla morte, condizione così anomala e drammatica da rendere l’emozionalità parossisticamente ciclotimica. Ecco perché molti poeti sono presenti in più sezioni: in guerra-lutto e guerra-comunione Ungaretti, in guerra-riflessione e guerra-follia Rebora, in guerra-festa e guerra-percezione Barni. Per altro, la rete che getta Cortellessa è a maglie tanto strette da non lasciarsi sfuggire nessun pesciolino d’oro della poesia, e le categorie che istituisce sono riccamente argomentata da cappelli introduttivi nei quali fa spicco la capacità di lettura empatica e di ragionata interpretazione che caratterizza il modus operandi dello studioso. La lunga introduzione, Fra le parentesi della storia e i “cappelli” alle varie sezioni – ciò che, oltre all’antologizzato, la nuova edizione eredita dalla vecchia – ristabiliscono l’equilibrio tra sensibilità e storia, reattività a breve termine e strategia di una vita, estro individuale e ideologia, immaginario e materiali.
Giusta e calibrata la formula con cui Cortellessa definisce nel complesso il fenomeno della «poesia della Grande Guerra»: il «frutto di una singolarissima combinazione di modernità e tradizione, di avanguardia e retroguardia, di innocenza e depravazione, di pace sognata e violenza goduta» (p. 42, corsivi nel testo). Un discorso a parte meritano l’introduzione (Fra le parentesi della storia) e la postfazione (Il senno di poi), insieme più di cento pagine, un libro nel libro: due messe a punto, dall’apparato ricchissimo (e in quanto tali di fondamentale importanza per chi voglia approfondire il tema senza lasciarsi sfuggire nulla, proprio nulla, di ciò che si è prodotto sull’argomento), separate da vent’anni: un “prima”, che prepara le riflessioni del centenario, e un “dopo” che funge da bilancio, non solo di ciò che è stato scritto, ma di una nuova sensibilità che tende a prevalere, e di cui, seguendo Cortellessa, potremmo prendere a emblema la frase di Mario Isnenghi: «Non dobbiamo vergognarci di aver vinto». Rispetto ad Isnenghi, che completava con una prefazione la prima edizione del volume, è proprio Il senno di poi a prendere, con rispettoso distinguo, le distanze. «A sedurlo», spiega Cortellessa, «ora sono le sirene dell’”irrazionale, le emozioni e i trascinamenti delle situazioni”» (697), tanto da porlo in positiva consonanza, sempre con la discrezione e l’equilibrio dello storico di vaglia, con chi volle la guerra e la volle fatta in quel modo, suscitando, nel Paese, un riaffioramento di «virtù civiche» (uno dei temi forti dell’intervista concessa da Isnenghi a La Repubblica nel marzo 2014) sotto la guida di un’élite politico-militare non così riprovevole come si voleva in passato.
Ben fa Giovanna Procacci (cui Cortellessa rinvia), recensendo la ripubblicazione nel 2014 della Grande Guerra 1914-1918 di Isnenghi – Rochat, espressione di un nuovo e diffuso atteggiamento verso la guerra, a mettere in evidenza «il ridotto spazio concesso dai due illustri storici alla vita quotidiana, alle sofferenze inferte dalla guerra, agli scioperi e alle agitazioni popolari di malcontento» (Procacci, 2014): il Paese mordeva il freno e, concentrandosi sulle vicende di guerra, si rischia di non accorgersene, come pure di lasciarsi sfuggire il fatto che lo stato d’eccezione sancito a fine ’17 dal “decreto Sacchi” (la possibilità di deferire ai tribunali militari anche civili accusati di disfattismo), insieme ad altre drastiche misure politico-amministrative, pone una premessa gravida di conseguenza, mostrando utili scorciatoie ad una classe dirigente eternamente in allarme di fronte a grandi o piccole (spesso risibili e strumentali) minacce “sovversive”. Insomma, la strada di Isnenghi e di Cortellessa è andata biforcandosi, e Cortellessa ha imboccata la sua che è anche la nostra.
Piace ancora ricordare, ci si accusi pure di campanilismo, che lo studioso comincia a mettere ordine nel gran mare della poesia della guerra italiana a partire dalle pagine di Saba di Questo libro e di un altro mondo, riferimento utile quanto raro (pp. 11 e segg.). Da qui il passo è breve non solo ad Ungaretti ma a quel Giulio Camber Barni (che Saba presentava nel suo saggio, scritto per l’edizione 1950 della Buffa), finalmente accolto nelle Notti chiare nel canone della poesia della Grande Guerra antologizzando due liriche tratte appunto dalla Buffa e da Anima di frontiera (ma non La canzone di Lavezzari, probabilmente il capolavoro, che rientrerebbe assai bene nella sezione della “guerra-comunione”, per come valorizza la comunità ideale dei soldati di tutti gli eserciti, affratellati dall’etica del dovere e dai codici dell’onore in un cameratismo sovra-nazionale).
Chiudendo il discorso su un libro che si raccomanda vivamente, consapevoli che c’è poco nella letteratura italiana e pochissimo in poesia che osi una condanna senza appello di quella guerra e di come fu imposta alla nazione, mi sembra opportuno prendere congedo – credo che Cortellessa non se ne avrà a male – con una sorta di dedica ai futuri lettori, quasi a correttivo dei sinistri lucori di una poesia fin troppo incline ai toni euforici: «Per quel che fu sofferto/ nell’ozio depravante della caserma/ sotto il bastone della servitù/ nel lezzo delle trincee/ nelle vigilie di magnificate carneficine/ nello squallore delle prigioni […]» (la parte iniziale di un’epigrafe antimilitarista dettata a fine guerra dal deputato socialista Ferruccio Maffi, distrutta dai fascisti nel 1921 e citata dal bravo Quinto Antonelli, Cento anni di Grande Guerra, Donzelli, 2018).