Villalta narratore

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Il più recente libro di narrativa di Gian Mario Villalta è in effetti quello scritto per primo

di Walter Chiereghin

 

La prima delle storie di cui è opportuno dire, per recensire il più recente libro di Gian Mario Villalta è la storia del libro stesso, Parlare al buio, come ci viene raccontata dall’autore nella postfazione del volume che di storie ne esibisce altre quindici. Veniamo così a sapere che quello che ci troviamo tra le mani è, sì, il più recente libro di narrativa dell’autore pordenonese, ma è anche il più antico, pensato e scritto oltre vent’anni or sono, grazie alla sollecitudine maieutica di Mauro Covacich, che aveva indotto l’amico – poeta e saggista fino ad allora – a scrivere un racconto, che è anche inserito tra quelli di Parlare al buio. Fu proprio con questo titolo che la prima fatica narrativa di Villalta venne accolta in un’antologia, Sconfinare, il Nordest che non c’è, edita nel 1999 da Fernandel, una piccola casa editrice ravennate, assieme a un racconto “gemello” di Covacich e a quelli di numerosi altri autori, tra i quali Pietro Spirito e il veneziano Gianfranco Bettin. Varcato quel suo Rubicone della prosa narrativa, Villalta continuò a scrivere gli altri racconti, ordinati – e intitolati – secondo un originale criterio cronologico a ritroso, partendo cioè da Marzo 1999 per arrivare ad Aprile 1966. Trovato con fin troppa facilità un editore col quale stipulò un contratto, il libro venne stampato, lui ricevette una settimana prima dell’uscita prevista le sue cinque copie, ma alla vigilia della presentazione al pubblico scoprì che il distributore non disponeva di alcun altro esemplare del volume: era successo che la piccola casa editrice (Editori associati – Transeuropa) era inopinatamente fallita, e il libro – salvo pochissime copie – non riuscì ad arrivare sul mercato.

Parlare al buio, il volume che ora viene pubblicato con un altro titolo (quello del 2000 era intitolato Un dolore riconoscente) è in pratica la riproposizione di quel non fortunato esordio, con poche variazioni e aggiustamenti, e ripropone le medesime storie, inscritte all’interno di un progetto narrativo che raccorda i singoli personaggi e le singole situazioni che vengono rappresentate sotto un più generale piano, teso a porre in evidenza l’interesse partecipe dell’autore per una messa in scena corale, dove ogni singolo episodio è funzionale al disegno di un’epoca e di un territorio in profonda trasformazione, colto nella sua rapida e sovente disordinata transizione da una civiltà prettamente contadina a qualcosa di non ancora ben precisato ma sicuramente differente. Il tempo tumultuante degli ultimi decenni del Novecento, oggetto di riflessioni critiche da parte di Pier Paolo Pasolini, è dunque il protagonista della raccolta di racconti, e si muove sullo sfondo di un territorio, quello gravitante attorno a Pordenone, tra Friuli e Veneto, tra montagna e pianura, tra agricoltura e industria che negli ultimi anni, anche per merito di Villalta, ha saputo assumere un ruolo centrale e preminente nella cultura – letteraria, ma non solo – dell’intera Regione di cui fa parte.

Nella postfazione cui si è accennato, è lo stesso autore ad avvalorare questa dimensione – diciamo sociologica – di quanto lo ha mosso a scrivere: «per l’arte dello scrivere la sostanza, alla fine, è sempre la stessa: trovare la forma che permetta la coesistenza di forze contrastanti. Nel mio caso si trattava della felicità per la fine oramai certa del mondo contadino e del dolore causato da questo medesimo evento: felice che un mondo di doveri e sacrifici, orizzonti esigui e ottusità se ne fosse evaporato in pochi decenni e allo stesso tempo bruciante il dolore per la perdita, tremenda come un’amputazione, di quell’appartenenza a campi e alberi, fossi, animali, feste, rituali, abitudini, che avevo maturato nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. In un decennio, a cavallo degli anni Settanta, arriva la modernità, anzi l’attualità, porta nuovi lavori, vestiti, comportamenti, denari, abitudini – e lascia una ferita profonda nel tempo dell’esistenza di tutti. Come raccontarlo?

Diciamo che ci provo da vent’anni.

Allora ci provavo per la prima volta» (pp. 150-151).

Naturalmente Villalta prima ancora che scrittore è lettore acutamente avvertito e sa bene che il movente che con notevole approssimazione chiamiamo sociologico della sua prosa scompare dall’ordito narrativo, lasciando soltanto qualche illuminante pagliuzza qua e là, mentre viene affidato all’insieme, alle descrizioni di personaggi e di ambienti, all’organizzazione complessiva del testo il compito di coinvolgere il lettore.

Nel piccolo universo indagato da Villalta coesistono «i proprietari delle villette e i metalmeccanici che lavorano i campi di domenica» (Maggio 1998, p. 17), e in questo microcosmo in inesorabile trasformazione si avvicendano sul proscenio della narrazione personaggi tratteggiati con solido ed efficace realismo, che, visti da vicino oppure colti in un momento di svolta nella loro esperienza, presentano caratteri di inadeguatezza talvolta tragici, come il ragazzo che perde la vita nel vano tentativo di salvare la sua  capra travolta dalla piena di un torrente, sempre in Maggio 1998, o altre volte solamente drammatici, come, in Luglio 1994, nel caso di Bepi, contadino arricchito che convive con non poco affanno con la moglie polacca e la più giovane e avvenente sorella di lei. Il modificarsi tumultuoso dei costumi e delle condizioni sociali e di relazione tra i singoli appare quasi per inciso, qua e là nella narrazione, come nel caso dell’ingegner Bosi, «Martino, che tutti chiamano ingegner Bosi, forse anche i suoi genitori, perché è riuscito a laurearsi, diventando così il primo laureato indigeno del paese» (Settembre 1974, p. 111). La percezione della perifericità in cui si muovono i personaggi è avvertibile anch’essa per incisivi accenni, come nella gita a Bologna di due adolescenti in Novembre 1981, che entrano di striscio in compagnie di giovani “metropolitani” che i due osservano ammirati, non senza constatare che «sono tutti vestiti da straccioni, con estrema ricercatezza» (p. 70).

Benché l’interesse di Villalta sia fortemente concentrato sui caratteri e sulle vicende dei suoi personaggi, non manca, nel caleidoscopio che descrive la transizione cui nel breve scorrere degli anni è soggetto il territorio, anche una considerazione sulla modificazione del paesaggio che in Febbraio 1988 è dovuta all’edificazione di un viadotto autostradale che «taglia l’orizzonte secondo prospettive nuove e cambia le proporzioni dei mezzi di trasporto, delle case e degli uomini» (p. 49). A mitigare lo stravolgimento paesaggistico ci pensa Bepi, un contadino che, con uno stratagemma, riesce a salvare dall’abbattimento due olmi di un suo podere sotto il viadotto, conservando almeno qualcosa del piccolo mondo antico nel nuovo quadro dell’intervenuto e invadente “progresso”, ed è così che «prima di entrare in casa, sempre, anche quando il freddo e il nevischio pungono la faccia, si ferma qualche istante a guardare i due olmi smangiati dal buio in fondo al campo. Il viadotto, i due olmi, lui stesso… C’è proporzione… Insomma c’è qualcosa» (p. 52).

Ecco come raccontare la trasformazione inferta dal tempo a un territorio.

 

 

Gian Mario Villalta

Parlare al buio

SEM, Milano 2022

  1. 160, euro 15,00