Mario Dondero, un fotografo libero

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La maggior parte delle sue immagini riguarda il reportage umanitario

di Paolo Cartagine

 

“Donderoad” era il soprannome che a Mario Dondero piaceva tanto, suono e parola che nella pronuncia evocano la strada dell’andare (on the road), una parola inventata che condensava il suo comportamento di girovago vivace e curioso.

È stato una leggenda del fotogiornalismo d’inchiesta. Portava a casa notizie di prima mano su eventi, fatti, situazioni e persone andando a vedere per conto nostro per risalire alle cause partendo dagli effetti. Un’attività di testimonianza diretta attuata per tutta la vita da indipendente, utilizzando un linguaggio fotografico chiaro e asciutto che non concedeva nulla alla cosiddetta “bella fotografia”.

Guidato da empatia e vicinanza specie per i più deboli, Dondero – «con l’accento sulla prima o», ci teneva a precisare con la voce un po’ roca e l’aria simpatica da chansonnier – si considerava al servizio del pubblico e della società, perché «la fotografia serve a comunicare, dunque deve essere compresa da coloro cui è destinata».

Nato a Milano nel 1928 da una famiglia di origini genovesi, a sedici anni era andato a combattere con i partigiani in Val d’Ossola, precoce dimostrazione di un pensare autonomo che contraddistinguerà l’intera sua vita di uomo libero, e il suo mestiere di scrivere con la fotografia lontano dal registro dell’equidistanza e dal grigiore del conformismo.

Terminata la Guerra, era stato assunto come giornalista a Milano Sera perché aveva buon occhio e una prosa precisa e pulita. Aveva cominciato a fotografare per L’Unità, l’Avanti, Le Ore, L’Espresso, Epoca dedicandosi a guerre, conflitti sociali e politici, avvenimenti internazionali, facendosi conoscere e apprezzare per la capacità e per il modo schietto di avvicinare le persone a prescindere dalla loro posizione nella scala sociale.

Nel contempo, aveva mantenuto un forte interesse per il mondo intellettuale degli artisti e degli scrittori, di cui spesso si è trovato compagno di strada.

Più di recente, continuando a realizzare i suoi reportage, aveva collaborato con Il Manifesto e Repubblica.

Tra i tanti riconoscimenti (fra cui il Premio Chatwin  nel 2008), andava fiero della nomina a “camallo onorario” della Compagnia Unica dei Lavoratori del Porto di Genova.

Quattro i poli geografici dai quali ha guardato il mondo. Il Bar Jamaica di Milano (narrato da Luciano Bianciardi ne La vita agra) dove discuteva con gli amici fotografi fra cui Ugo Mulas. L’ambiente della cultura progressista di Parigi, dove si era trasferito nel ’54, si era sposato ed erano nati tre figli. La Roma degli anni ’60 di Moravia e Pasolini e poi (dopo un secondo soggiorno a Parigi e la morte della moglie) Fermo, dove nel 1998 si era trasferito con la compagna. Qui aveva iniziato a riordinare il suo archivio, l’ultimo impegno prima di accomiatarsi nel dicembre 2015.

La maggior parte delle sue immagini riguarda il reportage umanitario: «Ho voluto fotografare la gente comune per realizzare racconti fotografici basati sull’osservazione di fatti minimali, su ciò che nella società rimane latente, e perciò dev’essere riportato alla luce. In questo risiede il valore civile del nostro mestiere».

I suoi lavori sono tutt’ora attuali per una rilettura della Storia, dal servizio sul Portogallo di Salazar, a quelli su Franco Basaglia all’Ospedale Psichiatrico di Gorizia a metà anni ’60, sul “Maggio ’68” a Parigi, sui movimenti per l’indipendenza in Guinea-Bissau e in Senegal, sul Muro di Berlino due giorni prima dell’inizio della demolizione, su Emergency in Afghanistan nel 2005.

Indimenticabili sono le immagini realizzate clandestinamente nel Tribunale di Atene il 17 novembre ’68 giorno della condanna a morte di Aléxandros Panagoúlis: «Le guardie stavano per perquisirmi; salvai il rullino con le foto scattate passandolo di nascosto a Camilla Cederna».

I suoi servizi offrono tutt’ora informazioni chiare e pertinenti, mostrano i sentimenti dell’Autore perché l’atto del guardare non è mai neutrale, spesso testimoniano ingiustizie e violenze verso le “non-persone” (secondo l’espressione coniata da George Orwell) e, soprattutto, pongono interrogativi sulla nostra posizione di spettatori.

Le immagini sono di taglio svelto e limpido, tutte in bianco e nero «dato che bastano pochi segni per comunicare in maniera precisa», sono misurate e senza scene cruente per il rispetto che Dondero aveva nei confronti di chi soffre.

Ne emerge il suo approccio etico preliminare al fotografare: «in ogni situazione ho cercato quali domande fare e come ascoltare le risposte al fine di costruire un documentario il più possibile completo e non scontato», per parlare soprattutto dei «luoghi ai margini e delle persone che ho incontrato lungo il mio cammino in tanti angoli del pianeta».

In definitiva, lavori che – prima di diventare “finestre sul mondo” lontane dagli standard dei mass media – contengono la sua filosofia di vita.

Altrettanto significativo l’altro filone affrontato da Dondero, attinente al rapporto con personalità del mondo della cultura internazionale a iniziare dalla celebre foto scattata nel ’59 a Parigi agli esponenti del Nouveau Roman (Robbe-Grillet, Beckett, e altri), che lo ha fatto conoscere in tutto il mondo. Non meno significativi – per citare solo alcuni – i ritratti riguardanti Pasolini con la madre, Sartre con Simon de Beauvoir, Giorgio Bassani, Günther Grass, Predrag Matvejević e Primo Levi.

Si innesta in questo filone il mondo del cinema, con i primi piani dell’attrice statunitense Jean Seberg, icona della Nouvelle Vague, quelli con Fellini, Welles, Ustinov, Bertolucci e altri ancora.

Egli considerava il ritratto come il prodotto dell’incontro della personalità del soggetto con quella del fotografo, che agevolava l’instaurarsi di spontaneità e naturalezza al di qua e al di là dell’obiettivo e restituiva, nelle foto, l’essenza e i caratteri prima della verosimiglianza.

Lo si può cogliere dagli sguardi in macchina dei personaggi ripresi, quasi un muto dialogo con l’osservatore attento che perdura a distanza di anni. Ma pure dalle posture, segni del “linguaggio non verbale” specifico delle singole persone – che Dondero sapeva interpretare con maestria – riprese nel loro ambiente (mai in studio) per non cadere nell’uniformità degli stereotipi. Dunque, anche il contesto, pubblico o privato, era per lui una componente irrinunciabile, anzi diventava uno dei punti di forza di tutto ciò che le sue foto contengono.

Dondero era felice di aver fatto quello che sognava ponendo sempre al centro dei suoi lavori «l’essere umano, realtà complessa e multiforme che mi ha sempre affascinato». In sessant’anni di carriera ha raccontato da freelance la Storia, e ha portato i lettori nel mondo dell’arte e della cultura attraverso i volti di molti protagonisti.

Ne è nato un bosco carta, il suo archivio (foto, scritti, libri, mostre), un’eredità inestimabile, opportunità per riflettere sul senso e sul ruolo della fotografia oggi, anche in rapporto all’evoluzione della comunicazione per immagini.

 

Processo Panagulis

Atene, 17 novembre1968