Segreti di famiglia

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di Gianfranco Sodomaco

 

La famiglia è sempre stata uno degli argomenti più trattati dalla storia del cinema. Mi basterà ricordare Rocco e i suoi fratelli, di Luchino Visconti (1960). Voi direte: più di 55 anni fa, eppure… Eppure rimane un capolavoro, di una attualità sconcertante rispetto a un’Italia parzialmente cambiata, rimasta invece con molte delle sue ferite. Ma parliamo oggi di un originale film del danese Joachim Trier, alla sua prima coproduzione internazionale girata negli Stati Uniti; nato a Copenaghen ma educato a Oslo, dopo aver studiato cinema a Londra. Non male… Il film è stato presentato a Cannes 2015 ma è uscito solo ora in Italia.

Dunque Segreti di famiglia (“Louder than bombs”), terzo film del giovane regista cosmopolita e, come vedremo, con tutte le caratteristiche del filmaker ‘viaggiante’. Trier si era già rivelato, un anno prima, alle platee festivaliere con Oslo, 31 agosto (rigorosa e convincente descrizione della giornata cruciale di un giovane depresso e tossicomane).

La storia. A due anni dalla scomparsa, si sta allestendo una mostra sull’opera della celebre fotografa di guerra Isabelle Reed, morta (ironia del destino) in un incidente d’auto vicino a casa. La donna, che vediamo in flashback (ma non solo) ha i tratti di Isabelle Huppert, attrice francese evidentemente amata dal regista (e dal sottoscritto). “Isabelle Reed è un personaggio ricco di sfumature e contraddizioni, una donna totalmente coinvolta nel suo lavoro che però soffre per non vivere appieno la vita familiare: si sente colpevole per le sue assenze e per i figli è quasi un’estranea. La sua sofferenza interiore è talmente forte che desidera morire. E tutto si esprime sul volto, senza troppe parole. Avevo bisogno di una grande attrice e riprendere i primi piani di Huppert è un piacere enorme. Non ho mai visto un attore cambiare così profondamente davanti alla macchina da presa. Ma sono felice di tutto il cast.” (Intervista al Venerdì di Repubblica, 10 giugno 2016). L’assenza della donna fa da catalizzatore ai comportamenti di altri tre personaggi centrali, i suoi familiari, ancora impegnati a elaborarne il lutto, secondo modalità molto differenti. Il padre Gene (Gabriel Byrne) lo fa in chiave depressiva e (apparentemente) rassegnata; il figlio maggiore Jonah (Jesse Einsenberg), trentenne appena diventato padre e professore universitario, a sua volta in profonda crisi, cerca di razionalizzare; l’ultimo, l’adolescente Conrad (Devid Druid) si è chiuso in un atteggiamento di negazione all’esterno ai limiti dell’autismo. Con l’aggravante che il più piccolo della famiglia ignora le ipotesi di suicidio relative al fatale incidente: notizia che sta per cadere su di lui ‘più forte di una bomba’, da cui il titolo originale del film.

Per coinvolgere il pubblico in queste quattro storie il regista lavora con una regia creativa, alternando i punti di vista dei tre uomini caratterizzando la narrazione secondo repertori cinematografici diversi. Ad esempio, Conrad, il fratello più piccolo, è visto come il protagonista di una commedia scolastica (il nerd che si prende la cotta per una compagna) mentre lo accompagnano immagini pop e di realtà virtuale (dal reportage al computer, al videogame); al contrario del padre, cui corrisponde una narrazione più posata e classica. Questa contaminazione di immagini dinamizza lo svolgersi di eventi che, altrimenti, potevano risultare troppo interiorizzati. C’è chi ha visto (Roberto Nepoti, ‘la Repubblica’, 23 giugno), e io sono d’accordo, una parentela tra questa scelta stilistica e certi passaggi della cinematografia antonioniana (“Blow Up”, 1966 e “Identificazione di una donna”, 1982, il tema della fotografia, della figura femminile, le atmosfere multimediali). E qui si capisce, per tornare alla Huppert, che cosa l’ha affascinata nell’interpretare la sua omonima Isabelle: la fotografa umanitaria è una donna che ama fin troppo il suo lavoro e Trier la ritrae a lungo, addirittura come se fosse un’opera d’arte.

Insomma “Segreti di famiglia” affronta tante situazioni (troppe?): la paternità, quella di Gene che assume anche quella di madre, ma anche quella di Jonah che sembra impreparato alla nascita del suo bambino, ma anche il rapporto tra una moglie e un marito, il legame tra due fratelli e, su tutto, l’influenza di una persona morta che determina le scelte di tutti.

Trier, sempre da ‘il Venerdì di la Repubblica’, 10 giugno: “ho scelto di raccontare per evocazioni improvvise, per associazione di idee, non seguendo il procedere logico di una storia. La sfida maggiore è stata quella di rendere i pensieri con le immagini. Questo renderà più difficile l’adesione del pubblico al quale chiedo una partecipazione molto attiva”. Sono d’accordo ma ‘l’intrigo’ del film è anche il suo pregio. Oggi riceviamo sempre più informazioni sui mali del mondo, ma ci sentiamo impotenti e sempre più incapaci a fare qualcosa. E i nostri problemi personali, piccoli o grandi che siano, ci fagocitano. Trier ha la capacità di collegare le fotografie di guerra, le più disparate, quelle della coraggiosa Isabelle, alla vita della sua famiglia, eppure questa donna non sarà capace di mettere insieme le due cose: fino a realizzare la sua foto definitiva, il suo suicidio. Un collega/amico anticipa a Gene che uscirà sul New York Times, in occasione della mostra celebrativa di Isabelle, la notizia del suo gesto. Questo metterà in crisi, inevitabilmente, soprattutto Conrad, il figlio adolescente, fino ai limiti della irrecuperabilità. Starà all’amore paterno superare quel limite. Film da vedere e su cui riflettere, molto, raccogliendo l’invito di Joachim Trier.

 

IN MEMORIAM

 

Hollywood ha, letteralmente, lasciato morire Michael Cimino, autore di due capolavori assoluti: Il cacciatore (1978) e I cancelli del cielo (1980). Riposi in pace. Abbas Kiarostami, maestro del cinema iraniano è morto il 4 luglio a Parigi. Di entrambi parleremo nel prossimo numero.