Onward e Soul, due Pixar a confronto

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In questo 2020 così strano e peculiare, è il film Pixar più “semplice” a essere il più interessante e coinvolgente, il più ricco di spunti e riflessioni

di Alan Viezzoli

 

Il 25 dicembre 2020, esattamente il giorno di Natale, sulla piattaforma streaming Disney+ è uscito Soul, il più recente film d’animazione prodotto dai Pixar Animation Studios. Diretto da Pete Docter, già regista di Inside Out, Soul è il secondo film Pixar targato 2020: il primo era stato Onward – Oltre la magia, presentato fuori concorso alla Berlinale di febbraio e poi distribuito, con varie difficoltà legate alla pandemia di Covid-19, sia in sala che on demand.

Non è la prima volta che la Pixar compie un’operazione di questo tipo, ovvero far uscire due film nello stesso anno solare: era già successo nel 2015 con Il viaggio di Arlo e il già citato Inside Out e si era ripetuto nel 2017 con Cars 3 e Coco. In tutti e tre i casi si può notare uno schema ben preciso: uno dei due film è pensato per un pubblico giovanile (Il viaggio di Arlo, Cars 3 e Onward) e l’altro, grazie anche a delle tematiche più mature, cerca di intercettare un pubblico più adulto (Inside Out, Coco, Soul).

La necessità di scrivere questo articolo deriva dal fatto che, in questo 2020 così strano e peculiare, è il film Pixar più “semplice” a essere invece quello più interessante e coinvolgente, oltre che più ricco di spunti e riflessioni.

Sia Onward che Soul trattano il tema della morte. Nel primo due elfi adolescenti, che si muovono in un mondo in cui la magia è scomparsa a favore della tecnologia, si trovano a dover intraprendere un viaggio per cercare di riportare in vita per 24 ore il padre morto diversi anni prima. In Soul un modesto insegnante di musica delle medie con la passione del jazz muore improvvisamente poche ore prima della sua grande occasione: suonare in un locale con una delle più importanti sassofoniste del mondo. L’unico modo per tornare in vita è cercare di instillare la scintilla della vita a un’anima mai nata, chiamata “22”, la quale però non ha alcuna intenzione di scendere sulla Terra.

È chiaro che con Soul Pete Docter cerchi di replicare il successo di Inside Out grazie a una formula molto simile, ovvero dar corpo a qualcosa che non possiamo vedere – le emozioni in Inside Out, le anime in Soul (e probabilmente non è un caso che 22 assomigli non poco a Tristezza, per forme e per colori). Ed è innegabile che Soul, rispetto a Onward, sia tecnicamente molto meglio realizzato dal punto di vista della fotografia e, se vogliamo, anche della regia.

Dove la differenza è notevole – e l’ago della bilancia passa vertiginosamente a indicare Onward – e nel comparto messa in scena. In Soul si ride per le scenette che coinvolgono le piccole anime ancora non nate e ci si commuove per alcuni passaggi del sottofinale, però è difficile restare davvero coinvolti nelle vicende che accadono ai due protagonisti. Tutto è troppo macchinoso, troppo costruito: le disavventure del protagonista Joe Gardner e di 22 sono meccaniche, forzate per raccogliere una serie di oggetti e indirizzare la trama verso una conclusione troppo buonista per un film Pixar. Troppe sono le incongruenze nel raccontare la storia di un uomo che ha sprecato la sua vita alla caccia di un sogno. È innaturale che suonare un paio d’ore la sera in un locale sia così incompatibile con la vita di un insegnante tanto da creare screzi con la madre. È impensabile che l’agnizione delle proprie azioni sovrasti così tanto e così presto la realizzazione del sogno della vita (e della morte) del protagonista. È incoerente il discorso che il barbiere fa a metà film con quello che è il significato profondo del film. Per dire, il tema del “passaggio di consegne” generazionale è trattato molto meglio addirittura in Cars 3 che pure ha l’insormontabile difetto di essere un film decisamente troppo infantile.

Al contrario Onward, pur nella sua costruzione classica e nel suo target più giovane, è molto più appagante sotto numerosi punti di vista. In Onward tutto è coerente e il viaggio che i due ragazzi compiono, simbolo della crescita all’età adulta, è perfettamente plausibile, compresi tutti gli ostacoli che i due si trovano ad affrontare. Il finale è commovente e, per certi versi, “ingiusto” nei confronti del protagonista ma proprio per questo scevro da un lieto fine scontato. E poi, parliamoci chiaro: l’aver usato come base un gioco di ruolo (il modello, anche se non lo si esplicita mai, è ovviamente Dungeons & Dragons) cattura l’attenzione e l’interesse non degli adolescenti bensì dei 20/30-enni; e lo fa molto di più di quanto non faccia invece Soul, il cui target è davvero complicato da individuare.

Dove però gli artisti della Pixar si sono superati in Onward è nella creazione del mondo. I protagonisti del film si muovono in un mondo infinitamente più grande di loro in cui ogni persona che incontrano ha un bagaglio enorme di storie da poter narrare. Storie che incuriosiscono lo spettatore e che meriterebbero di essere conosciute. Non in un sequel – la storia raccontata in Onward si conclude perfettamente all’interno del film stesso – bensì in altri film ambientati nello stesso mondo, in cui i protagonisti di questa pellicola potrebbero non apparire mai. In un presente cinematografico in cui sequel, reboot e spin-off ammorbano le sale e vengono realizzati senza voglia e senza idee solo per cercare di fare botteghino sfruttando un nome famoso oppure l’effetto nostalgia, l’aver creato un universo di cui lo spettatore vuole davvero saperne di più è letteralmente una magia. Un piccolo miracolo che riesce in pochissimi casi e che la Pixar dovrebbe pensare a sfruttare in futuro.

Spiace che Onward abbia avuto la sfortuna di uscire in un periodo così complesso per i film perché avrebbe meritato un successo molto maggiore e un lancio promozionale superiore a quello che invece è stato riservato a Soul.