Oriente e occidente nell’arte di Zhou Zhi Wei

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Nella sintesi tra la sua storia, inscritta nella sensibilità orientale, e gli influssi derivati dall’occidente, l’artista ha raggiunto una fisionomia di marcate e vibranti intonazioni poetiche

di Enzo Santese

 

Il rapporto particolare con Trieste ha visto più volte Zhou Zhi Wei protagonista di significativi eventi espositivi nella città dove ha intrecciato proficue relazioni di conoscenza con appassionati d’arte e collezionisti. Ma nella regione Friuli Venezia Giulia è stato celebrato in due importanti occasioni anche presso la Chiesa di San Gregorio a Sacile. Pur vivendo in Italia da molti anni, ha mantenuto con il suo paese d’origine un legame intenso, fatto non solo di visite e rientri periodici, ma di contatti stretti con il mondo artistico cinese, con il quale si è confrontato in numerose circostanze culturali.

Trascorsi i primi trent’anni della sua esistenza nella terra d’origine, la Cina, l’artista ha assorbito gli effetti del genius loci fissandolo nella propria matrice d’intellettuale, che combina con i riflessi della sua permanenza in Italia, a Roma e a Padova, dove attualmente risiede. Nella sintesi tra la sua storia, inscritta nella sensibilità orientale, e gli influssi derivati dall’occidente, l’artista ha raggiunto una fisionomia di marcate e vibranti intonazioni poetiche, espresse nella pittura di narrazione, che intreccia mito e cronaca, poi nel paesaggio e nel ritratto. In ogni caso le opere mai esauriscono in sé il loro valore significante, ma rimandano transitivamente ad altro, in un rilancio simbolico che permea ogni sua creazione. La poetica di questo pittore mette in relazione due concetti che costituiscono da sempre altrettante polarità del suo mondo interno, la solitudine e l’amicizia. Zhi Wei si misura con le dimensioni del tempo e dello spazio, così dilatate nella sua patria da far smarrire la percezione di sé; in ogni dove oggi esse inducono pure a un senso di isolamento, quello stesso che attanaglia l’uomo contemporaneo, raffrenato nei suoi slanci dai feticci dell’attualità e dallo strapotere della tecnologia, che sostituisce l’uomo stesso in molti passaggi operativi, una volta adatti a una lievitazione dei rapporti tra le persone. L’unico antidoto alla solitudine resta l’amicizia, che è incontro di individui, ma anche convergenza di popoli, disposti a conoscersi nel rispetto delle singole peculiarità. Zhou Zhi Wei porta in dotazione un patrimonio di acquisizioni raggiunte all’Accademia di Belle Arti di Shangai da due famosi pittori cinesi, Yu Yun-jie e Liu Kemin. Viaggiatore instancabile in Asia, in Africa e in Europa, ha registrato nella sua coscienza, prima che nella memoria, situazioni in cui il dato fisico confina con la rarefazione spirituale. L’artista ripercorre idealmente la “Via della Seta”, quel fascio di strade che univa Pechino al Mar Mediterraneo, il più importante canale di transito delle idee e delle merci tra la Cina e l’occidente.

Attratto anche dai tesori d’arte del nostro Paese, è venuto in Italia dedicandosi non soltanto a soddisfare la propria curiosità culturale, ma a verificare sistematicamente tutti quei luoghi e opere che giacevano nel suo repertorio di conoscenze; poi ha continuato con lena davvero incisiva a ricercare nel proprio chiuso “forno di cottura” i meccanismi di una crescita che hanno coagulato le ragioni native con gli stimoli nuovi. Questi non gli sono certamente mancati nella contiguità con compagni di viaggio importanti che, a vario titolo, sono stati per lui punti di riferimento imprescindibili: Pietro Annigoni, Gregorio Sciltian, Giacomo Manzù, e soprattutto Riccardo Tommasi Ferroni. Rimanendo a studio da quest’ultimo, ha maturato lo slancio alle grandi narrazioni pittoriche dove il recupero del passato si fa formicolante tensione dell’attualità, fondendo i tempi della storia in un unico immobile presente. Da qui desume la forza per un’impalcatura disegnativa di rara efficacia, la quale gli consente con facilità di caratterizzare l’adesione realistica con una vena tipicamente plastica delle figure, che si muovono su uno scenario concepito come rappresentazione di un dato simbolico. Rossana Bossaglia, la critica d’arte che tra i primi ha segnalato le potenzialità artistiche di Zhou, esprime un giudizio pienamente condivisibile: “La sua è una veduta non obbligatoriamente veristica, perché i rimandi storici si fondono con quelli fantastici, gli episodi citati si sovrappongono; permane il senso di una suggestione simbolica che vuol essere, nei suoi momenti più intensi e drammatici, anche il frutto di una riflessione filosofica: l’antico e il moderno messi a confronto, la memoria inalterata e la drammaticità del caduco.”

Il paesaggio è vissuto da Zhi Wei non come un contenitore di eventi, ma come un organismo che pulsa nelle sue articolazioni vegetali e fisiche, dentro una sfera immaginaria in cui il fluire delle stagioni si è rallentato per l’arbitrio di una natura sospesa tra il dato di un universo indefinito, dove l’orizzonte divide il percettibile dall’impalpabile, e la sostanza visiva del reale. Il tutto in una nitidezza atmosferica che esalta la magia di scene, generatrici di un prodigio, lungo come l’intensità della luce che dà forma alle cose. E la natura appare sempre una landa incontaminata, dove la riconoscibilità dei luoghi evapora verso gli approdi dell’assoluto, rendendoli all’occhio del fruitore emblemi universali di “sim-patia” con l’esistente, anche quando ha connotazioni diverse da quelle prospettate da Zhi Wei. Questa è capacità di aderire al reale astraendolo dal contesto d’origine, in un processo di rarefazione che è intellettuale e spirituale insieme; a questo proposito, è esemplare l’opera Primavera dei Gobi, in cui la silente potenza della natura, nell’abbacinata morfologia del deserto infuocato dal sole, è anche e soprattutto la dimensione dello spirito che si innesta nell’aspetto poderoso di una fisicità sconfinata. L’artista passa all’analisi del “paesaggio umano”, quando affronta pittoricamente la fisionomia delle persone; in questo motivo raggiunge la cifra di un’efficace consonanza col dettato interno del soggetto ritratto, la cui peculiarità è piegata a esprimere con potenza d’espressione i moti psicologici, le modulazioni umorali, le linee essenziali del volto con un impianto cromatico di estrema raffinatezza. E la delicatezza della stesura rivela la sua prima scaturigine nella maniera con cui il pittore guarda il mondo e lo fa considerare anche all’osservatore meno attento: prospettive lunghe, disegnate da una mano che “ritaglia” le forme del reale per applicarle in uno sorta di gigantesca quinta teatrale illuminata da una luce senza tempo, come se il giorno potesse appartenere a qualsiasi stagione dell’anno. Le figure umane, quando punteggiano il paesaggio sono presenze indicatrici di un rapporto dalle forti connotazioni spirituali tra l’uomo stesso e l’esistente intorno a lui. Il tutto si sviluppa in un procedimento attento a dare ai colori non tanto il marchio di una credibilità fisica.