Paolo Monti, fotografie luce ombra

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La sua opera di fotografo è il racconto indiretto e sotterraneo della sua vita, perché è la vita vissuta la materia da cui nascono le storie che le sue immagini contengono

di Paolo Cartagine

 

Porto Marghera nel 1946 è un immenso cantiere per la ricostruzione dopo i disastri e i danni provocati della guerra.

Alla Montecatini – industria chimica di punta che si modernizza per approdare ai mercati internazionali – c’è nel settore dirigenziale un funzionario serio, preciso e capace, laureato alla Bocconi: si chiama Paolo Monti (Novara, 1908 – Milano 1982). Originario delle montagne scure della Val d’Ossola, dal Piemonte si è trasferito con la moglie a Venezia, città che lo affascina per la luce del mare e la cultura cosmopolita.

La fotografia – eredità paterna – entra nella sua vita rimanendovi per sempre; la estende alla sperimentazione in camera oscura, alla ricerca e alla riflessione teorica guardando agli Stati Uniti e alla Germania dove la fotografia da tempo si è allontanata dal Pittorialismo, pratica di inizio ‘900 imitativa della pittura figurativa, ancora imperante in Italia.

Senza predecessori di tale livello nel nostro Paese, Monti rielabora questi concetti e ritiene che la fotografia debba riguardare soprattutto la vita di ogni giorno per coglierne complessità, multiformità e mutamenti che lo scorrere del tempo comporta.

Grazie a queste convinzioni e alla chiarezza nel divulgarle con tenacia – superando ripetuti ostacoli e insanabili contrasti di ambienti conservatori ostili alle sue fughe in avanti – Monti diventerà il cardine su cui poggia il rinnovamento della Fotografia italiana del secondo Novecento (che altri poi proseguiranno), perché «il collegamento tra sguardo, fotografia e conoscenza è una delle trasformazioni fondamentali del XX secolo».

La riprova è che le sue foto – conservate assieme a libri, saggi e appunti in più Archivi a lui intitolati – sono oggi richieste in tutto il mondo per mostre e convegni di studio, immagini bianconero che, per l’intera sua attività, stamperà personalmente in camera oscura.

Nel ’47 è tra i fondatori a Venezia del “Circolo Fotografico la Gondola”, di cui diventa presidente, portando una forte ventata d’aria fresca nel mondo foto-amatoriale. Incontra Peggy Guggenheim, gli studiosi Longhi, Ragghianti e Argan; frequenta in Piazza San Marco il negozio Fotorecord dei fratelli armeni Pambakian dove trova riviste d’arte sconosciute in Italia.

Nel 1953, a quarantacinque anni, la svolta decisiva in quattro mosse risolute: lascia la Montecatini, lascia Venezia, si trasferisce a Milano, passa al professionismo fotografico.

Un impegno che, per il resto della sua vita, lo vedrà attivo con successo in diversi settori: architettura e design per Domus e Casabella, campagne di rilevamento fotografico dei beni storico-artistici dell’Appennino Emiliano e di Bologna per i rispettivi Piani Regolatori, monografie (fra cui De Chirico, Guttuso, i fratelli Pomodoro, Zigaina, ai quali fa pure indimenticabili ritratti), insegnamento al DAMS di Bologna, saggi sul ruolo della fotografia nella comunicazione per immagini, apparato iconografico della Storia della Letteratura Italiana di Garzanti del ’66 e dei volumi sul nostro Paese del Touring Club Italiano nel periodo 1969-’75, partecipazione a convegni e collaborazioni con riviste specializzate.

In parallelo, documenta i cambiamenti urbanistici e sociali specie a Milano dove, alle slanciate architetture del boom economico (Torre Velasca, Grattacielo Pirelli) si contrappone il degrado di nuove periferie dormitorio invase da anonimi edifici seriali. Nel contempo, non trascura le ricerche sulle forme incontaminate della natura.

Un talento naturale nel saper vedere, Monti era convinto che «fotografando ogni volta si compie un tragitto, dal guardare-passivo al vedere-attivo per approdare al capire», un qualcosa di dinamico che può cambiare la prospettiva da cui osservare se stessi nel mondo, «luogo di continue provocazioni visive». Un viaggio che, alla fine del novembre 1982, giungerà all’ultima stazione, Milano, da cui Monti risalirà nella sua amata Val d’Ossola dove tutto era cominciato settantaquattro anni prima.

Le foto di Monti sono in realtà pagine di un diario dominate da un io narrante oltremodo egocentrico (“tolemaico” direbbe il filosofo Sergio Cotta) e bisognoso di raccontarsi. Pagine da lèggere con curiosità per conoscere chi abbiamo di fronte e scoprire ciò che un foglio di carta nasconde dietro e dentro la superficie del visibile. Non sono mai semplicistiche “copie dal vero” bensì interpretazioni personalizzate, continue variazioni e diramazioni di una strada che ci invita alla solitudine della lettura per avvicinare il nostro io di lettori a quello dell’Autore. È il racconto indiretto e sotterraneo della sua vita, perché è la vita vissuta la materia da cui nascono le storie che le sue immagini contengono, brevi testi che non ci si stanca mai di ripercorrere. Allora, la fotografia non è solo un dispositivo destinato ad andare a ritroso, ma anche antidoto contro l’andare avanti del tempo per riscoprire il nostro ieri e vedere da dove siamo partiti. Il passato, nella fotografia, è incorreggibile, nella mente no.

Al fondo delle sue foto c’è comunque un mistero, la dualità del suo carattere.

Appare già nella scelta dei temi. Da un lato, l’esigenza di ritrarre città e opere dell’uomo, dall’altro rocce, sassi, alberi e foglie della Val d’Ossola. Il mondo attuale della maturità convive in lui con quello passato dell’infanzia, la frenesia del territorio antropizzato urta contro l’armonia dell’ambiente incontaminato.

Il “doppio” è ancor più evidente dal “come” sono congegnate le stampe.

Monti trascorre in camera oscura ore e ore – tra “lentezza” e “rapidità” di Kundera e Calvino – per aumentare l’impatto visivo delle stampe con inedite combinazioni fra carta sensibile alla luce, reagenti chimici e ingranditore. Una gestione del tempo cosparsa di «forse se, e se provassi così» per inoltrarsi nei labirinti della sperimentazione e uscire con risultati inusuali. Ma pure controllo metodico, specchio del suo essere alla continua ricerca della soluzione ottimale, quasi applicasse alla fotografia i principi economici del massimo rendimento studiati all’Università.

Le immagini sulla natura sono grafie astratte e irripetibili fatte di neri assoluti, bianchi abbaglianti e scarsi grigi intermedi (in cui la luce, per vivere, si serve dell’ombra): la “libertà” dell’inventare. In opposizione, gli altri lavori sono costituiti da immagini-documento con scala tonale completa dalle sfumature precise e marcate: la “responsabilità” del testimoniare.

Dunque, oscurità e limpidezza, carattere chiuso e bisogno di esprimersi, introversione e necessità di aprirsi al mondo. Meandri di un’inguaribile angoscia esistenziale annidata nei recessi dell’animo che, per Monti, si stempera solo nella costante ricerca di nuove sfide verso cui tendere: «per me è rassicurante osservare il mondo attraverso il mirino della macchina fotografica, in quanto la realtà appare già incorniciata nella memoria della fotografia».

Paolo Monti, sessant’anni di grande fotografia e un solo soggetto, la sua inquietudine.

 

 

L’angelo della morte

Venezia 1951