Parole in libertà

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Il ricorso alle reti sociali (non mi rassegno a chiamarle social network) autorizza qualunque alfabetizzato ad esprimere il proprio pensiero. ”Danno diritto di parola a legioni di imbecilli”, osservava Umberto Eco, e non mi sfugge che io stesso, scrivendone qui, mi sto avvalendo del medesimo diritto di parola offerto – secondo Eco – anche ad altri, imbecilli o premi Nobel che siano. Il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero è costituzionalmente garantito, come proclama l’articolo 21 della nostra Carta, e grazie al cielo largamente praticato nelle sedi universitarie, nelle aule parlamentari come nelle osterie e nei bar, dove, magari dopo qualche bicchiere di troppo, ciascuno può esternare qualsiasi fesseria gli venga in bocca.

Quando tuttavia una palese corbelleria esce, anziché dalla bocca di un avvinazzato, da quella del Presidente degli Stati Uniti o di uno storico dell’arte, entrambi improvvisati epidemiologi, quando spiegano che la pandemia che ha contagiato 15 milioni di persone nel mondo, uccidendone, finora, 617.000 è sostanzialmente una risibile influenza, un allarme dovrebbe suonare nella testa di chi li ascolta.

Analogamente, se un leader politico che pare andare per la maggiore nel nostro Paese, non si perita di bollare come «una fregatura grande come una casa» i risultati di una trattativa in seno all’Unione Europea che ha prodotto per l’Italia una disponibilità di 209 miliardi di euro tra contributi a fondo perduto e prestiti a tasso agevolato, dovrebbe essere chiaro a chiunque che il soggetto esprime parole in libertà, flatus vocis di una demagogia raffazzonata e del tutto irrispettosa dell’intelligenza di chi lo sta ad ascoltare.

A simili esibizioni di audace sprezzo del ridicolo, del resto, siamo abbastanza abituati: pensiamo a quanti hanno l’impudenza di affermare che cent’anni fa ad incendiare il Narodni dom a Trieste non furono i fascisti, ma gli slavi che stavano dentro l’edificio in quel disgraziato 13 luglio 1920. Così si può affermare impunemente che Giacomo Matteotti è morto di polmonite, o scivolando accidentalmente nel bagno di casa sua.

A tale proposito, all’indomani della restituzione alla comunità slovena triestina del bel palazzo progettato da Max Fabiani, mi piacerebbe rivolgere agli amici di quella comunità un’esortazione a considerare la possibilità di favorire, all’interno di quella prestigiosa sede, la creazione di spazi di incontro a disposizione di tutte le comunità linguistiche presenti a Trieste, a iniziare da quella italiana. Il 28 marzo del 2008, nell’aula magna della Scuola Interpreti dell’Università, ospitata in quel palazzo, chi scrive ha promosso un incontro pubblico con Boris Pahor, reso possibile dal Magnifico Rettore Francesco Peroni e dalla direttrice della Scuola superiore Lorenza Rega. Davanti al pubblico che si assiepava in sala, assieme all’amica Marija Pirijevec abbiamo conversato con l’anziano scrittore, testimone dell’incendio del luogo che quella sera ci ospitava. Era forse la prima volta che tanta gente di ogni età e delle due comunità linguistiche più rilevanti della città si era riunita per ascoltare il minuto, grande uomo che ci narrava di una vita spesa in difesa della dignità dell’essere umano, a partire dal diritto di utilizzare liberamente la propria lingua.

Ecco, ritengo che moltiplicare all’infinito occasioni di quel genere, pensare che in una sala del Narodni dom possa essere allestita una mostra di pittori triestini anche senza la presenza di opere di Spacal o di Palčič, mentre nella sala attigua si tiene un incontro di poesia a prescindere che vi prendano parte o meno Košuta o Kravos, costituirebbe il presupposto per lasciarci tutti alle spalle il secolo che ci separa da quel maledetto incendio. Se gli sloveni triestini volessero perseguire un tale percorso di apertura, si renderebbero promotori di una profonda modificazione della nostra percezione di essere un’unica comunità, ricca di culture diverse, ma convergenti nel disegnare un futuro migliore per questa nostra città.