A Venezia il punto sul contemporaneo nell’arte

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Una Biennale di Venezia pienamente rappresentativa della complessità dell’epoca attuale

di Enzo Santese

 

May You Live In Intersting Times / Che tu possa vivere in tempi interessanti è l’augurio del curatore della Biennale d’Arte di Venezia (aperta dall’11 maggio al 24 novembre) Ralph Rugoff, storico e critico d’arte americano che vive a Londra dove dirige la Hayward Gallery, un’istituzione internazionale tra le più efficaci nella ricezione e diffusione di alcuni dei segnali davvero importanti della ricerca attuale. Il titolo ricalca un proverbio-maledizione o meglio un presunto detto cinese, citato per lunghi anni fino a che si è scoperto che è falso. In un tempo come il nostro, infestato dal bacillo delle fake news, è certamente un segno di perfetta aderenza alla dimensione della realtà odierna, percorsa nei social da mille mantra fasulli. Dal punto di vista quantitativo i numeri rendono la rassegna sempre vincente e, a parte il criterio fortemente soggettivo di chi sceglie le presenze, la manifestazione ha il pregio di un deciso tasso di rappresentatività di quello che si muove nell’ambito dell’arte contemporanea: 79 artisti invitati, con la particolarità che le donne sono per la prima volta in maggioranza, 90 le partecipazioni nazionali, tra cui quattro paesi esordienti, Ghana, Madagascar, Malaysia e Pakistan. Un po’ strana appare l’idea di organizzare all’Arsenale e ai Giardini due mostre differenti con gli stessi artisti impegnati a presentare nelle due sedi lavori anche tra loro contrastanti. C’è da dire che in ogni situazione di questo tipo conta molto il rigore della selezione che dovrebbe essere concepita per porre i contenuti in un rilievo di visibilità e fruibilità ordinata secondo determinati criteri; in molti angoli della Biennale si ha invece l’idea di un ammasso caotico di segnali, che nel loro affastellarsi inibiscono la possibilità piena di valorizzare nella giusta misura le proposte che possano convincere il pubblico di vivere in “tempi interessanti”. A parte il problema di allestimenti un po’ affrettati e non sempre in linea con il concetto di eleganza nella modalità delle proposte, in alcuni padiglioni e in varie personalità presenti c’è il tratto di fisionomie artistiche originali e fedeli alla matrice geografico-culturale che li ha prodotti.

L’Africa e l’Asia fanno sentire la loro voce con un’originalità che si sintonizza peraltro con le linee internazionali della ricerca; ricca di suggerimenti a una riflessione anche complessa è l’opera di Michael Armitage, artista originario del Kenia che fonde nella stoffa dipinta delle sue opere l’attenzione alla società e alla storia del suo paese, fatta di sofferenze e ingiustizie, ma anche di adesione a una storia che si replica continuamente nella realtà odierna, con esiti di oppressione e violenza.

Indubbiamente nei progetti e nelle realizzazioni c’è il segno della consapevolezza che il nostro tempo è così confuso anche perché esiste un intreccio di fattori in continuo cambiamento, che producono la metamorfosi della realtà in tutte le sue declinazioni; a ciò contribuisce e non poco la costante rivoluzione tecnologica e genetica, poi quella dell’intelligenza artificiale, della robotica; il solo cambiamento è di per sé portatore di traumi, se poi è in continua inarrestabile fibrillazione può generare sconquassi di ogni genere. E le trasformazioni nell’era attuale, grazie alle nuove tecnologie che sono un occhio puntato perfino sull’infinitamente piccolo, possono essere vissute in presa diretta.

 

I Leoni d’oro

I premi sono indici di una direzione concettuale secondo cui l’arte contemporanea, così come appare nella grande e articolata vetrina veneziana, sta distinguendo in maniera abbastanza netta il territorio della pittura e della scultura, miranti a un riconoscimento da parte del mercato, e l’ambito che sembra più in linea con le richieste dell’attualità sul piano tecnico operativo e poetico creativo: l’azione teatrale, il movimento del cinema e la narrazione giornalistica. Il Leone d’Oro per il migliore padiglione nazionale è andato inaspettatamente ma non a caso alla Lituania, che nello spazio dedicato, quello della Marina Militare del Sestiere di Castello, in posizione abbastanza defilata rispetto alle zone di maggior concentrazione turistica, ha prodotto una performance suggestiva e intrigante: la regista e filmaker Lina Lapelyte, la scrittrice Vaiva Grainyte e e la coreografa Rugile Barzdziukaite hanno creato una sorta di palcoscenico naturale in riva al mare, dove sulla sabbia persone distese su asciugamani in veste di bagnati veri e propri hanno attuano il progetto Sun & Sea (Sole & Mare, cioè Marina); e il pubblico osserva il tutto da una posizione sopraelevata, cioè dal punto di vista del sole, ascoltando anche le canzoni dei protagonisti dell’evento su melodie di una sottile malinconia; sembra proprio un’antinomia tra l’apparente tranquillità e la musica ricca di presagio inquieto e velata angoscia. Come miglior artista è stato premiato lo statunitense Arthur Jafa per il suo film The White Album pienamente innestato nella contemporaneità con le sue stratificate difficoltà che mettono talora in stridente contrasto la gestione della politica, i problemi razziali e il sentimento dell’amore. Miglior artista emergente è stata designata la cipriota Haris Epaminonda, impegnata in una combinazione tra video e installazioni.

La nigeriana Otobong Nkanga dentro una tensione che tocca vari aspetti politici, con la sua scultura dislocata all’Arsenale Vene allineate (2018) di marmo, legno, vetro e pittura una serpentona di 25, 9 metri, ha avuto la menzione speciale. Così è avvenuto con la messicana Teresa

Margolles, che mette in scena la ripetizione di un gesto utilizzando tessuti con sangue di persone giustiziate al confine tra il suo Paese e gli Stati Uniti. Il Leone d’Oro alla carriera è andato a un altro americano, Jimmie Durham, indiano cherokee nato in Arkansas che, oltre ad essere artista visivo di grande rilievo, è un appassionato di scrittura nell’ambito della saggistica e della poesia. Uno dei tratti peculiari della sua indagine è sulla funzione dell’oggetto e sui riflessi del consumismo alla fine del XX secolo; è stato a lungo attivista politico nell’American Indian Movement.

 

Nello sguardo ai Padiglioni

Il “Padiglione Italia” alle Tese delle Vergini in Arsenale, curato da Milovan Farronato, come ogni volta, fa discutere per le scelte e per i contenuti che, pur interessanti, non sembrano carichi di quell’energia che servirebbe ai visitatori stranieri per avere qualche indizio più serio sull’arte attuale nel nostro Paese. L’idea di partenza è senza dubbio una linea d’indagine generosa di attese per il visitatore che desidera avere qualche certezza sull’oggi e qualche ipotesi credibile per l’immediato futuro: il concetto di labirinto mutuato dal pensiero di Jorge Luis Borges e di Italo Calvino, applicato a una realtà odierna che formicola di elementi molte volte non connettibili tra loro, quindi con la conseguenza di uno spaesamento che significa perdita della direzione verso approdi sicuri. Ne riflettono con le loro opere Enrico David, che ha già due presenze alla Biennale, Chiara Fumai, scomparsa due anni fa, e Liliana Moro.. Lo spettatore è sollecitato a diventare protagonista dell’evento, scegliendo un itinerario di suo piacimento, perché i richiami sono molteplici e, quindi, portano facilmente allo spiazzamento di chi guarda.

Nel Padiglione dell’Australia campeggia l’installazione video a tre canali Assembly, di Angelica Mesiti, che si addentra nei meccanismi di sviluppo della società ricorrendo alla trasformazione delle parole in musica mentre l’azione della performer cerca una comunicazione diretta con gli spettatori seduti in cerchio, mettendo in evidenza le problematiche legate alla politica e ai rapporti con il potere.

Il padiglione russo è senza dubbio uno dei più avvincenti sul piano della concezione progettuale e della messa in scena di un movimento teatrale ispirato al dipinto di Rembrandt Il ritorno del figliol prodigo, del 1668, che fa parte del poderoso patrimonio del Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. Il regista Alexander Sokurov “riproduce” una delle sale del museo e “costruisce” uno studio d’artista, che guardano alla drammatica situazione del mondo contemporaneo squassato dal tumultuare di interessi sempre divaricanti.

Il Padiglione Francia si fregia della presenza di Laure Prouvost, a cui è stato assegnato il Turner Prize 2013, a dimostrazione di un valore ormai consolidato sugli scenari internazionali. L’intervento di impernia su un video una compagnia piuttosto composita di giovani attori, acrobati, prestigiatori mossi da un desiderio di libertà assoluta, sciolta da vincoli di traguardi prefissati, partono dalla periferia parigina per arrivare all’interno della Biennale veneziana. Quegli stessi attori, sono impegnati in performance nel pieno della loro fisicità, dentro improvvisazioni continue tra slanci d’ironia e tensioni anche drammatiche.

 

Individualità artistiche di spicco

Tra gli artisti che si segnalano per l’originalità della loro proposta c’è Tarek Atoui, del Libano, che attraverso la combinazione di musica e arte visiva innerva la performance aprendo nuove potenzialità di resa comunicativa tra l’artista e il fruitore in una miscela di effetti sin estetici (sonori, visivi, tattili).

La trentaduenne giapponese Mari Katayama è un esempio di come l’arte possa se non risolvere almeno rendere accettabili le difficoltà della condizione umana. Affetta da una rara malattia genetica, all’età di nove anni ha dovuto subire l’amputazione di ambedue le tibie. Paradossalmente questo è stato il fattore che ha trasformato una minorità in occasione per esprimere la propria vocazione artistica. Ha iniziato a usare il suo corpo come una superficie da dipingere con disegni tatuati sulle sue protesi. La sua fotografia si ispira a quella della moda, in cui l’artista talvolta è figura umana, talvolta assume la fissità del manichino.

I cinesi Sun Yuan e Peng Yu sono autori di una delle opere più incisive sulla fantasia e sensibilità del visitatore, la cosiddetta “installazione performativa” Can’t help myself (2016): dentro un cubo di vetro un braccio robotico è mosso continuamente da sensori che gli consentono di pulire e ripulire il pavimento di una sostanza liquida simile al sangue; il carico metaforico rimanda ovviamente ai molti luoghi dominati dalla cifra della violenza bruta. Gli stessi artisti all’Arsenale, in un cubo trasparente hanno posto una poltrona stile imperiale in silicone bianco, dal sedile esce un tubo che vibra violentemente per l’immissione di aria pressurizzata, creando disorientamento in chi guarda.

Questa edizione della Biennale, pur a tratti generosa di incitamenti al potere liberatorio dell’ironia e del sorriso, con il pensiero che l’ha prodotta è sicuramente innestata nella complessità problematica che agita molte zone del mondo in diversi ambiti dell’esistenza. Ne è una dimostrazione lampante il Padiglione del Venezuela, aperto con otto giorni di ritardo per questioni legate alla crisi politica del Paese sudamericano sull’orlo della guerra civile. Gli artisti sono Natali Rocha, Gabriel Lòpez, Ricardo Garcia e Nelson Rangel; solo quest’ultimo merita una citazione per la sua opera, offerta al pubblico in un grande schermo 3D, dove il volto triste e sofferto di una donna si muta progressivamente in quello del Presidente degli Stati Uniti.

 

 

Il padiglione centrale

Photo by: Andrea Avezzù

Courtesy: La Biennale di Venezia