Patriottismo repubblicano e nazionalismo

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di Fulvio Senardi

L’epidemia che si è abbattuta sull’Italia a partire dall’inverno 2020 ha probabilmente contribuito a determinare la scarsa attenzione ricevuta da Nazionalisti e patrioti di Maurizio Viroli, uscito nell’autunno dell’anno precedente (Laterza, 2019, pp. 87, Є 9). Il pamphlet – scorrevole nella forma e dal ragionamento che fluisce lungo una serrata linea di pensiero tanto da escludere ogni digressione – riprende nella sostanza osservazioni e conclusioni del libro apparso in prima edizione nel 1995, Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia.
Viroli, tra i maggiori studiosi italiani di storia delle dottrine politiche, si confronta infatti qui con uno dei suoi temi preferiti, il “patriottismo repubblicano”, di cui ha studiato le tracce nell’Umanesimo civile, in Machiavelli, Rousseau, Mazzini: un ideale, spiega in Nazionalisti e patrioti, secondo il quale «la nostra lealtà e il nostro affetto devono andare alla patria intesa come libera repubblica di cittadini che hanno uguali diritti e uguali doveri, e interpreta l’amore della patria come amore caritatevole (nel significato classico di caritas) del bene comune di un popolo, esorta all’impegno per la libertà politica e la giustizia sociale, impone il rispetto di tutti i popoli» (12-13). Gli si è opposto, nel corso della storia moderna, la concezione nazionalistica, che ha fortemente improntato, negli anni della riscossa tedesca contro Napoleone, il paradigma storico-ideologico del romanticismo, tanto da fondare in esso uno dei propri archetipi di pensiero.
L’esaltazione della storia, della lingua, delle tradizioni di una comunità rigorosamente etno-territoriale (il messaggio di Herder) in contrapposizione al razionalismo sentito astratto dell’Illuminismo e al cosmopolitismo – che facendoci cittadini d’ogni luogo ci rende nel contempo dappertutto apolidi – trova secondo Viroli una valida alternativa nella visione di Mazzini, che rivendica una «patria intesa come associazione», assai lontana dalla «nazione intesa come corpo organico», dottrina di pretta matrice tedesca. Da qui una linea di pensiero politico che avrebbe i suoi momenti culminanti nel Risorgimento e nella Resistenza, e che sarebbe invece degenerata in nazionalismo con Crispi e, in forma esasperata, con il fascismo. Ampie e asseverative le parafrasi da Mazzini, nel cui Doveri dell’uomo Viroli legge un «vero e proprio manifesto di patriottismo repubblicano» (55): «Non c’è alcun bisogno di rinunciare al patriottismo per sostenere la causa dell’umanità. […] È necessario che ci sia un medium tra individuo e umanità, e tale medium sono le nazioni e le libere patrie edificate sopra di esse. Esse sono i mezzi che Dio ha disegnato per realizzare il piano dello sviluppo dell’umanità. […] La patria è il punto d’appoggio della leva che noi dobbiamo dirigere a vantaggio comune. […] Prima d’associarsi con le nazioni che compongono l’umanità, bisogna esistere come nazione» (41).
Interpretano e ribadiscono le posizioni mazziniane una serie di intellettuali che vanno a comporre, sostiene Viroli, il più nobile lignaggio del patriottismo novecentesco: Carlo Rosselli, il fondatore di «Giustizia e libertà», Adolfo Omodeo, che ha saputo leggere il messaggio universalistico del Risorgimento, il Benedetto Croce del Manifesto degli intellettuali antifascisti, che vedeva nell’amor di patria, pagine del giugno 1943, un valore opposto al nazionalismo, «bestiale libidine, morbosa lussuria, egoistico capriccio», Vittorio Foa che «riconosceva a Mazzini il merito di aver educato gli italiani ad un patriottismo fondato su un concetto di patria che ‘non esprime una entità territoriale’» (73), Carlo Azeglio Ciampi (cui Viroli è stato al fianco nel ruolo di consulente per le attività culturali), che «ha dimostrato che la migliore tradizione del nostro patriottismo è una preziosa risorsa per far rinascere la coscienza civile degli italiani» (XI).
Peraltro Viroli è uno studioso troppo attento per illudersi che concetti storicamente così densi e articolati possano essere linearmente schematizzati: «il contrasto fra patriottismo e nazionalismo non esclude che nel linguaggio politico e nella cultura del Risorgimento i concetti di patria e di amor di patria abbiano assunto anche significati propri del linguaggio del nazionalismo. Ci sono esempi di scrittori politici, di storici e di letterati che hanno insistito soprattutto sulla comune appartenenza etnica, sulla religione cattolica intesa come tratto distintivo dell’identità italiana, sulla nostalgia per la passata grandezza e sulla volontà di ritrovarla. Sarebbe cattiva storiografia rappresentare il Risorgimento quale trionfo dell’ideale del patriottismo nel suo significato più puro, ma sarebbe altrettanto cattiva storiografia presentare il Risorgimento come un ulteriore esempio di nazionalismo» (69).
Fin qui il libretto di Viroli, che con la scelta spericolata del medium pamphlettistico si risparmia quegli approfondimenti, quegli spazi di confronto e di dibattito, quelle problematizzazioni che sono la carne e il sangue del discorso storico. Resta il wishful thinking (possiamo tradurre come ‘pensiero del buon auspicio’) e l’invettiva. Che hanno bisogno di qualche integrazione per guadagnare la giusta dimensione prospettica. Da un lato dunque non si può che salutare positivamente la rivendicazione di una differenza di sostanza tra il patriottismo risorgimentale e il nazionalismo crispino, e poi corradiniano, fascista, ecc. (ma qui è stato maestro Federico Chabod, con il volume del 1961, che raccoglie le lezioni milanesi del 1943-4, L’idea di nazione) a fronte di un disorientante slabbramento concettuale in cui spesso incorre la storiografia anglosassone (penso per esempio a Lucy Riall, The italian Risorgimento: State, Society and National Unification, 1994, in italiano nel 2007, che impiega sempre il lemma “nationalism”/nazionalismo anche a proposito dei “padri” della patria), dall’altro è azzardato trascurare il fatto che anche Mazzini – che, come scrive Roland Sarti, uno dei suoi migliori studiosi moderni, aveva «abbracciato e tentato di sintetizzare», […] princìpi dicotomici», legittimando quindi «interpretazioni radicalmente diverse» – abbia a momenti patrocinato una visione etno-territoriale dell’Italia, prodromo della scarsa sensibilità (per eufemismo) manifestata dal Paese istituzionale nei confronti delle minoranze (Dio, scrive Mazzini, ha assegnato agli italiani «la patria meglio definita d’Europa», cfr. Dei doveri dell’uomo, ovvero, per quanto riguarda i confini orientali, come specifica nella «Pace» (1866) appoggiandosi a Dante, e quindi più esigente verso Est rispetto ai Doveri dell’uomo, «nostra è l’Istria […] nostra è Trieste […] nostra è la Postoina o Carsia» (cfr. Mazzini, Scritti politici).
Del resto è sintomatico che Viroli non citi mai, se non per allusione («cattiva storiografia presentare il Risorgimento come un ulteriore esempio di nazionalismo») Alberto Maria Banti, il più agguerrito sostenitore, nel campo della storiografia contemporanea, di una connotazione naturalistica della comunità nazionale immaginata e promossa dal Risorgimento. Peraltro, opinabile anche il fatto che si proponga Carlo Azeglio Ciampi a immagine di profeta contemporaneo della causa nazionale intesa nel senso ricco e profondo di Viroli. Anche senza sposare le durissime critiche di Tabucchi al Presidente, v’è certo qualcosa di ambiguo nel promuovere con insistenza ritualità patriottiche (l’esposizione della bandiera, l’esecuzione dell’inno nazionale, anche a teatro prima degli spettacoli lirici, ecc.) in una stagione, quella berlusconiana, in cui sono stati compiuti, per opera degli eletti, i peggiori stupri dello spirito costituzionale e dei valori di giustizia e verità. Occuparsi della “scorza” per la difficoltà a intervenire sul “contenuto” (in realtà Ciampi fu duro, e in non poche occasioni, con Berlusconi, ma basta ciò a raddrizzare il legno storto di un popolo?) può far nascere il sospetto che si tratti solo dell’ (ancorché involontario) ipocrita imbellettamento del marciume.
Ma non è ovviamente questo il momento e il luogo di scrivere del defunto Presidente: de mortuis nisi bene. Sarà certo più utile, per chiudere il discorso, riportare invece la stringata pars costruens del libello: «se vogliamo contrastare il nazionalismo che fa leva sugli interessi locali, sul linguaggio, sulla cultura, sulle memorie e sull’etnia, dobbiamo usare il linguaggio del patriottismo repubblicano che apprezza la cultura nazionale e i legittimi interessi, ma vuole elevare l’una e l’altra agli ideali del vivere libero e civile» (81). Auspicando che Viroli non intenda, quando scrive di “patriottismo repubblicano” orientato contro il nazionalismo, qualcosa di vicino a certe iniziative del PDS come la mano tesa a Fini da parte di Violante (di cui Viroli è stato per altro collaboratore nel periodo di presidenza della camera), e di cui Bocca scrisse nel 1998: «Lei ha proposto una revisione del fascismo di Salò, ci ha esortato a ‘capire quei giovani’», alimentando un revisionismo filofascista, che sta spuntando da mille fontanili, sta diffondendo l’immagine di una Resistenza feroce e vendicativa, la resistenza di Porzus e del ’triangolo rosso’, apparentata alle foibe e ai gulag» (la lettera di Bocca al «compagno Violante» si può leggere integralmente on line), è opportuno anche indicare quale sia il soggetto politico che Viroli chiama a svolgere questa strategia: «la sinistra», che invece «ha quasi sempre lasciato alla destra il monopolio di questo linguaggio, è stata internazionalista e ha coltivato un patriottismo basato sulla lealtà al partito o al sindacato», aggiungendo che «tranne pochissimi leader, primo fra tutti Carlo Azeglio Ciampi, nessuno a sinistra ha saputo fare tesoro dell’ideale del patriottismo repubblicano» (82).
Un’immagine, spiace dirlo, caricaturale. Con tutti i suoi limiti e difetti, la “sinistra” italiana (e non ditemi che è come l’Araba fenice di Metastasio, nonostante Renzi non siamo ancora quel punto, almeno nel senso di una “sinistra diffusa” nel Paese) è nazionale e non internazionalista (anzi, fin troppo atlantista, a mio parere), patriottica al punto giusto per rivendicare i valori della Resistenza e per ricordare caduti e martiri (anche quelli delle Foibe), tenendo la barra dritta – storiograficamente parlando – contro revisionismo o tentazioni neo-fasciste. Per non parlare poi dei valori civili, di giustizia sociale, di rispetto della legalità, di onestà (e non è questo patriottismo?) di cui la “sinistra” si è fatta, con tutti i limiti e le eccezioni che si vuole, promotrice e garante, lungo la cupa parabola della più recente storia repubblicana da Craxi al vecchio malvissuto che è stato arbitro della vita politica italiana per più di vent’anni. Qui Viroli, forse per amore di tesi, non ha visto giusto. Se poi intendeva, ma spero di no, che la sinistra dovrebbe assumere, come “oppio del popolo”, quelle ritualità, quei gesti esteriori, quelle sceneggiature, quel bric-à-brac tricolore di bandiere, labari, gagliardetti, sfilate di fanti piumati, di frecce tricolori, di squilli di tromba e inni di Mameli, di scoprimento di targhe, deposizioni di corone e di presentat arm così caro alla destra, ai retori, all’onorevole Pinotti e al cardinale, nonché generale di corpo d’armata Angelo Bagnasco, grazie, ma preferiamo di no. Il patriottismo è altro.