Sul narcisismo

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«Siamo tutti narcisisti, ma non allo stesso modo. E non tutti abbiamo un disturbo narcisistico di personalità»

di Francesco Carbone

«Chiedere scusa è una gran cosa, però devi aver sbagliato.

Se mai mi capiterà di sbagliare, chiederò scusa»

(Donald Trump)

«Sono niente, e funziono»

(Andy Warhol)

Quando iniziò l’attuale infestante epidemia di narcisisti? Nel 2010 usciva il saggio di Jean Twenge e Keith Campbell The Narcissism Epidemic (Atria Books) in cui si constatava che un giovane americano su dieci soffriva di disturbo narcisistico della personalità. Come succede spesso, gli artisti erano arrivati molto prima: nel 1976, Tom Wolfe aveva scritto per il “New York Magazine” The Me Decade (Il decennio dell’Io): l’espressione divenne celebre, come altre di Wolfe, e come lo stesso inizio dell’articolo: «Me and my hemorrhoids…»; in italiano suona: «Io e le mie emorroidi siamo i divi dell’Ambassador». Era successo questo: durante una sessione di meditazione molto New Age all’Hotel Ambassador di Los Angeles, il guru aveva invitato i partecipanti a condividere i propri sentimenti più segreti, liberandosi da ogni inibizione e ritrosia. Fu così che le emorroidi entrarono nella storia: una giovane donna prese il microfono e rese tutti edotti della sua non più privatissima faccenda. Pochi anni dopo, nel 1979, Christopher Lasch pubblica il celebre saggio La cultura del narcisismo (Neri Pozza 2020). Nel canonico DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) il narcisismo appare però solo nel 1980 (nell’ultimo aggiornamento, DSM-5 del 2013, ha l’onore di essere riconosciuto come uno dei dieci disturbi di personalità: tra tutti il più epidemico).

Dunque ne aveva fatta di strada la parola, che era entrata in società nel 1898 con l’inglese Havelock Ellis e il tedesco Paul Näcke. Ma anche gli anni Settanta di Tom Wolfe non erano stati che un inizio. Non c’erano ancora internet e soprattutto i social. Da allora miliardi di selfies, post e cuoricini sono scorsi sotto i ponti dei ricchissimi social, e il diluvio non fa che crescere. Se era facile ritrovarsi narcisisti con un po’ di chitarre acustiche stile West Coast, rollando artigianali spinelli con tutto il corollario e le possibili derive, come siamo diventati nel XXI secolo, ora che siamo tutti annodati irreversibilmente a cellulari che fotografano, registrano, filmano i vagiti dei neonati e le capriole dei gatti e che, più profondi della tana del coniglio bianco di Alice, in un attimo ci fanno scivolare tra gli specchi seduttivi di Instagram e Facebook?

Vittorio Lingiardi – psichiatra e psicanalista – ci aiuta a capire nell’agile e intelligentissimo Arcipelago N (Einaudi 2021) con una mappa utile a tutti. Comincia così: «Siamo tutti narcisisti, ma non allo stesso modo. E non tutti abbiamo un disturbo narcisistico di personalità». Se il buon narcisismo è «un amor proprio senza presunzione» che ci permette di «perseguire i nostri obiettivi, essere orgogliosi dei nostri successi, provare gioia per ciò che facciamo», sarà da capire quando – nel continuum (concetto fondamentale) che si dà dallo stato di salute mentale alla nevrosi e peggio – il narcisismo si faccia patologico, e come il terapeuta possa intervenire. Vedremo che, nel caso dei narcisisti, potrebbe sembrare una lotta contro il mondo.

Freud diceva che tre sono i mestieri impossibili: il genitore, l’insegnante e lo psicanalista. Fa parte di questa impossibilità il dover essere in ogni caso ottimisti, sentimento che impone di agire sempre come se una possibilità di guarigione esistesse. Per questa ipotetica chance, occorre conoscere. Direbbero i medici: facendo prima di tutto un’anamnesi e un’eziologia. Scrive Lingiardi: il narcisismo viene da «un fallimento nell’autoregolamentazione dell’autostima», dall’«incapacità di spostare l’attenzione da sé per rivolgerla a un altro». Lo stesso aveva scritto Freud nel 1914: il narcisismo è «lo stato in cui l’Io trattiene presso di sé la libido» (Introduzione al narcisismo, 1914).

Perché accade? Anche nel cuore del narcisista più delirante – o meglio: soprattutto nel suo – si cela una ferita che il poveretto prova a lenire nevroticamente con un «un costante confronto con gli altri», pieno di rabbia e d’invidia, ossessionato dal bisogno di apparire, almeno nel proprio teatro interiore, come la regina di Biancaneve davanti allo specchio delle sue brame: uno specchio che dovrà mentire sempre, sminuendo le infinite Biancaneve che la circondano, e non sarà facile: «come case infestate da fantasmi, tutte le persone narcisiste portano dentro di sé sentimenti di inadeguatezza, debolezza e vergogna»; rispetto a questo, «le illusioni narcisistiche sono soluzioni patologiche di sopravvivenza, ma è necessario che il terapeuta sappia guardarle anche come tentativi di negoziare con il dolore del proprio mondo interno»; «ma attenzione: se ogni disturbo della personalità è l’esito di un modello bio-psico-sociale, sociale è solo un terzo del problema».

Chissà se davvero oggi solo un terzo dipende dal mondo in cui viviamo, almeno noi occidentali consumisti e perennemente immersi nel fantasmagorico mondo dei social: secondo il rapporto Digital2019, gli italiani già due anni fa vi trascorrevano sei ore al giorno, disponendo ognuno in media di sette profili, a cui vanno aggiunte le due ore quotidiane di tv. Con la pandemia questi tempi si sono ulteriormente accresciuti.

In ogni caso, posto che su quel terzo che dipende dalla propria vita sociale sia tale, e tenendo per un po’ lo Spirito del Mondo fuori della porta dello studio dell’analista, seguiamo Lingiardi nello studio degli altri due terzi che determinano il destino del narcisista: la sua storia personale e il suo corredo genetico, aspetto quest’ultimo che costituisce la frontiera più nuova a cui si dedicano le neuroscienze.

In fondo, nel buio della sua preistoria psichica, il narcisista ha i fantasmi dei genitori. Questi – più la madre che il padre – possono provocare una ferita psichica al figlio in due modi: ignorandolo, da anaffettivi troppo presi da sé stessi, oppure tempestandolo più o meno subliminalmente con pretese di prestazioni e realizzazioni impossibili, perché realizzi il loro sogno di avere un figlio perfetto. Tenuto – direbbe Jacques Lacan, incestuosamente – al riparo dalle frustrazioni inevitabili nel mondo reale, chiuso in un nido malato che salverebbe non solo il figlio, ma i genitori stessi dalle inaccettabili smentite della vita, «si creano beatitudini narcisistiche a due (o anche a tre, se sono coinvolti entrambi i genitori)»: un bambino-bolla – come l’ha chiamato Jean Baudrillard – crescerà avulso dal mondo reale, e quindi non educato ad affrontarlo. Questi figli idolatrati «come protesi narcisistiche idealizzate» da mamma e papà, quando arriverà il momento in cui si riveleranno inevitabilmente ben lontani dal loro sogno isterico, saranno lasciati a sé stessi, «come oggetti svalutati mai all’altezza delle aspettative». Lì la dura vita adulta del narcisista inizia. Qualcosa del genere pare sia accaduto a Donald Trump, sul quale sarà necessario tornare.

Quanto al fondamento genetico, un fatto è che narcisisti patologici diventano molto più spesso i maschi che le femmine: 14 volte di più. Il testosterone, se elevato, costituisce «una determinazione biologica essenziale in quanto potenziale inibitore della maturazione della corteccia orbito-frontale destra, e quindi dell’area deputata alla risposta ai segnali sociali, provocando una diminuzione dell’empatia e un aumento del comportamento aggressivo». Sono studi, come dicevamo, in cui le neuroscienze sono ancora pionieristiche.

L’insieme dei tre fattori, genetico, biografico e sociale, determinerebbe quindi il profilo psicologico dell’ormai infestante narcisista: destino paradossale e desolante questo, di chi deve a qualunque costo credersi unico in mezzo a una folla sterminata di persone che si credono non meno uniche di lui.

Come si affronterà la vita con questo corredo socio-bio-genetico? Soprattutto viene da chiedersi: come guarire, in un contesto sociale e culturale che premia proprio un certo tipo di arroganza e megalomania?

Lingiardi ricorda il saggio di Paul Babiak e Robert D. Hare Snakes in Suits: When Psychopaths Go to Work (Harper Business 2019): i serpenti in giacca e cravatta del titolo sono quei narcisisti «ad alto funzionamento» capaci di trovare nella vita conferme anche formidabili che la loro patologica megalomania e la loro spietata mancanza di empatia sono le doti giuste per giustificare il loro sacrosanto successo.

Inevitabile pensare a quella che Lingiardi chiama la tracotanza trumpiana alla quale dedica un capitolo. Lì impariamo che per Donald Trump, nel 2016, ventisette psicoterapeuti sentirono il dovere morale di violare la «regola Goldwater», secondo la quale non si deve mai attaccare un politico sbandierando una diagnosi che ne stigmatizzi le caratteristiche mentali. Ma Trump era troppo eclatante, e pericoloso: così in The Dangerous Case of Donald Trump è stato descritto per quello che è: un «narcisista maligno» (il livello subito sotto alla psicosi) «che ai tratti narcisisti affianca […] quelli paranoidi, antisociali e sadici».

Ovviamente, molto più di Trump, il problema dovrebbe essere la diffusione evidente, a tutti i livelli, di questo tipo di nevrosi, tanto più che è «difficile che i narcisisti grandiosi vengano in terapia: troppo onnipotenti, troppo autocentrati, troppo convinti di sé»; «con realistico pessimismo Kernberg definisce questi pazienti almost untreatable, cioè proprio difficili da aiutare e con cui è difficile costruire una relazione caratterizzata da fiducia, collaborazione, accordo sugli obiettivi». Sono pazienti, ammesso che siano disposti a diventarlo, che parlano «più “di fronte” al terapeuta che “al” terapeuta».

Ma parlare di fronte invece che al è il tratto dominante del nostro tempo pubblico: basta guardare pochi minuti di un qualunque talk show; o dedicare un po’ di attenzione alle recenti rivelazioni dell’ex-manager di Facebook Frances Haugen, che in ottobre di quest’anno, al Senato degli Stati Uniti, ha raccontato come sia del tutto voluto e consapevole da parte dei padroni dei social fomentare sentimenti di odio, invidia e rabbia negli utenti, molto più fidelizzabili con il livore – che è una pulsione primordiale annidata negli strati più primitivi e tenaci del cervello – che con i buoni sentimenti. Nel Financial Times si legge che sempre la Haugen ha presentato i risultati di un’indagine interna che avvertiva che, se si riducesse il coinvolgimento degli adolescenti nella galassia Facebook-Instagram-WhatsApp, questi social avrebbero una riduzione degli utenti del 45% entro il 2023. Con relativo crollo dei profitti. Intanto il 6% degli adolescenti americani già oggi si riconosce dipendente da Instagram: mondo fatato con tutti quei bei filtri che regalano un make-up da principe e da principessa anche alle foto dei più bruttini. Malgrado tutto questo, non esiste un movimento No-social.

Moltissimi pensieri suscita il bel saggio di Lingiardi, che con sapienza e pertinenza fa ricorso al meglio dei contributi specialistici ma alla letteratura (Ovidio, Calderón, Rilke, Valéry, Wilde, ovviamente Gadda, ecc.) e alla filosofia: Bachelard, Barthes, Nietzsche, Benjamin, Colli, ecc. perché – e cita un bel pensiero di James Hillman – «se i terapeuti della nevrosi fossero dottori in filosofia sarebbero in gradi di vedere non soltanto quanto di nevrotico c’è in ogni filosofia ma anche quanto di filosofico c’è in ogni nevrosi».

Manca, e ci sembra un piccolo atto mancato, qualunque riferimento a Jean Baudrillard, che già dagli anni Settanta aveva scritto pagine fondamentali su questo nostro mondo, che sempre di più si dà come un universo in cui «da molto tempo la responsabilità è morta», essendo tutti chiamati ad essere «esecutori irresponsabili» di procedure indiscutibili, per le quali però nessuno «accetta più di essere giudicato da nessuno, nemmeno dall’intera società» (Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli 2015, ed. originale 1979). Conta molto di più la pubblicitaria seduzione che «l’emergere di qualsiasi verità», fino alla produzione di discorsi che «si seducono da soli» (Simulacri e Simulazioni, Pgreco, 2008 ed. originale 1994). È il nostro mondo, ovviamente anche di politici – per quello che contano – molto più figli della Nutella e del Mulino Bianco che di qualunque realtà. Un mondo che un narcisista può abitare come un topo il formaggio.

Cristopher Lasch

La cultura del narcisismo

Neri Pozza, 2020

pp. 304, euro 18,00