Per caute sopravvivenze

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Un piccolo dizionario

di Malagigio

 

ANTOLOGIA

 

È una parola che abbiamo preso dal greco, che alla lettera vuol dire raccolta di fiori. È il testo che pretende di tenere assieme il meglio del meglio di un autore, o di un genere, o addirittura il meglio del meglio degli autori migliori della migliore letteratura.

Tutti gli italiani scolarizzati sono stati sottoposti a un ripetuto esame della loro conoscenza dei passi salienti dell’Antologia. Gli italiani sono così stati educati alla bizzarra credenza che, se uno scrittore è stato capace di finire almeno in un’antologia, allora è un genio: altrimenti non vale nulla. La grandezza di uno scrittore è misurata dalla quantità di pagine che gli sono dedicate nell’Antologia. Questa fede ha inevitabilmente contagiato gli scrittori stessi, che per tutta la vita aspireranno a due cose: a vivere di rendita grazie a premi cospicui come il Nobel e ad essere accolti nell’Olimpo dell’Antologia.

Una minoranza di fanatici potrebbe obiettare che esistono fior di scrittori assolutamente riottosi ad essere antologizzati, soprattutto se privi di un glorioso messaggio morale come: essere buoni, aiutare le vecchine ad attraversare la strada, pagare le tasse, magari credere in Dio, o se miscredenti, almeno nell’amore universale.

Il bello delle antologie è che, finché esisteranno le scuole, venderanno i loro tomi pesantissimi come il pane, essendo il loro acquisto obbligatorio. La cosa va solo lodata: coi profitti delle vendite delle antologie, si potranno pubblicare in perdita moltissimi libri inutili, che per Oscar Wilde è la condizione delle cose belle.

Nessuno, a parte forse i loro curatori, ha mai letto un’antologia dall’inizio alla fine. Le antologie sono infatti illeggibili, e in effetti non sono fatte per essere lette. Servono a trasformare le opere letterarie in interrogazioni, e quindi in voti, e quindi in promozioni: ormai giustamente garantite urbi et orbi.

 

CASINO

 

Casino è una delle tante parole che si è via via emancipata dagli scantinati del cosiddetto turpiloquio arrivando ai piani alti della buona società. Casino indica una situazione di caos, di confusione, di grande disordine. La cosa non va ritenuta di per sé disdicevole; e infatti non sono poche le situazioni in cui troviamo persuasivo chi dice che siamo finiti in una situazione in cui sarebbe proprio il caso di «fare casino». Uno dei padroni dei media, e quindi delle menti italiane, ha dichiarato di recente in modo limpido e chiaro che alla tv un dialogo di quelli che Platone ci ha lasciato del suo maestro Socrate, per quanto geniale, farebbe addormentare qualunque spettatore: perché in quel mondo di flash e di spot «funziona solo il casino». Immaginiamo infatti che noia sarebbe un’intervista ad Einstein che ci spiega la relatività senza almeno un terrapiattista, un’astrologa ayurvedica e un deputato creazionista a dargli contro.

Il casino per noi italiani coincide con la vita, intesa sempre come un costante oscillare tra carnevale e catastrofe. Al contrario, l’ordine ci risulta uggioso, in fondo cimiteriale. Per noi, ordinati possono essere tutt’al più i tedeschi: constatazione che facciamo senza alcuna invidia. Popoli come quello ci appaiono ordinati in quanto affetti da un’inguaribile mancanza di fantasia. La coppia fantasia e casino sono per noi quello che Leibniz (che era di Lipsia) riconobbe essere il migliore dei mondi possibili.

Si potrebbe infine pensare alla storia un po’ paradossale della parola casino: che, come quelli di una certa età dovrebbero ricordare, era il bordello: ambiente – dicono sempre i nostalgici esperti – pulito, ordinato, dal tempo rigorosamente contingentato, luogo addirittura militaresco, dove almeno le puttane erano sempre in orario.

 

ELETTO

 

È un termine ambiguo: ci sono infatti eletti ed Eletti. In Italia, il massimo dello chic è essere riconosciuto Eletto senza aver mai ceduto al mediocre impulso di candidarsi. Si candida infatti solo chi ha bisogno di essere eletto da qualcun altro. Si candidano i bisognosi. Anche se è inevitabile che si candidino in particolare quelli che ritengono di meritare di diventare eletti, resta il fatto che il candidato fa sempre la figura di uno che chiede il permesso: il permesso di fare quello che gli piacerebbe fare, e cioè l’eletto.

Ma se qualcuno (o qualcuna) è venuto al mondo a miracol mostrare proprio perché Eletto, starà lontano come il diavolo dall’acqua santa da quella imbarazzante cosa che sono le campagne elettorali. All’Eletto è infatti semplicemente dovuto il riconoscimento della sua evidenza di Eletto. La cosa pare abbia un vantaggio anche per noi altri: nel momento in cui lo riconosciamo, dovremmo sentire un senso di sollievo e di gratitudine avendo trovato la creatura provvidenziale.

Gli Eletti sono taumaturghi; porta gravi sventure disconoscerli. Nel doppiaggio italiano del film Matrix (Andy e Larry Wachowski,1999), la banda di sabotatori del Sistema cerca un messianico Eletto (in originale semplicemente The One). Quel film ci aiuta a capire che, dopo l’Eletto, dunque, come si suol dire, c’è solo il diluvio.

Non che tutto questo esima un Eletto da certi doveri: il primo dei quali è non apparire mai umano, e cioè desideroso di qualcosa; egli infatti, in quanto Eletto, ha, e soprattutto è, già tutto. Se accetta una carica importante, lo farà solo benignamente e sempre con una certa graziosa riottosità. Su questo c’è sempre molto da imparare da quella impareggiabile sequenza di Eletti che sono i papi.

Ci sono stati nei secoli moltissimi monarchi stupidi, ma neppure un re così sciocco da candidarsi alle elezioni. Mai e poi mai l’Eletto potrà essere eletto: piuttosto implorato, supplicato, scongiurato: meglio se in coro e in ginocchio. Solo da questo l’Eletto potrebbe essere persuaso.

 

EMERGENZA

 

Stato che ci è connaturato. Come l’Italia nacque, si scoprì subito in una grave, anzi gravissima emergenza: l’ex regno di Sardegna doveva ancora pagare il conto astronomico delle celebri guerre d’indipendenza, e riversò il debito pari pari nel primo bilancio del neonato Regno d’Italia. Furono lacrime e sangue, soprattutto per i poveri (la tassa sul macinato). Da allora, pare che siamo passati da un’emergenza all’altra, che non ci sia stato dato un momento che non fosse estremamente gravoso, che non fosse un particolare momento storico di cui era impossibile non tenere conto. Così le stesse elezioni paiono un’eventualità apocalittica; né sarà mai concesso al governo di cadere, neppure all’amministratore del condominio sarà permesso di dimettersi: a tutti i detentori di cariche cosiddette apicali fino alla fine dell’emergenza sarà concesso di morire. Viviamo infatti sempre in situazioni in cui i mercati ci guardano, le cancellerie ci scrutano, i poteri forti torvamente ci esaminano.

L’emergenza dunque ci si confà: in fondo la troviamo tonica, quel suo senso di urgenza ci risulta esaltante. Amiamo dirci che noi italiani diamo il meglio nelle emergenze: terremoti, alluvioni, pestilenze, terrorismi, e naturalmente guerre: ancora meglio se dopo una Caporetto o un otto settembre. Nostalgicamente ripensiamo al tempo in cui, quando proprio non si trovava niente di meglio da fare, ci concedevamo uno spettacolare crollo della Lira.

Il giorno che chi comanda ci dicesse a reti unificate che non c’è nessuna emergenza, sarebbe il panico.