Per caute sopravvivenze

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Un piccolo dizionario

di Malagigio

 

ALGORITMO

Da un po’ di tempo, leggendo i giornali on line, capita che appaia, proprio rivolto a me, con una certa insistenza e con un tu cordiale che a me timido suona insolentemente intimo, questo annuncio: «Il costo di un funerale a Udine potrebbe stupirti». Chissà perché non ci clicco sopra. Magari, se lo facessi, morirei. O morirebbe qualcuno che mi è caro, o un ignaro pensionato di Udine. Avendo ceduto anch’io alla dilagante pandemia di narcisismo, mi piace ritenermi vivo, e in ogni caso non sono di Udine. L’algoritmo mi sta mancando di una settantina di chilometri. Spero anche di una settantina di anni. Vorrei scrivere all’algoritmo capo di questo algoritmo sciocco, posto che abbiano notizie matematiche per cui starei per morire, per avvertirlo che il suo sottoposto sta quanto meno sbagliando geograficamente. Magari sta sbagliando persona. Io non sono neppure della provincia di Udine, né mi è caro – nessuno è perfetto – nessun udinese che stia per morire e al quale dovrei generosamente offrire un funerale stupefacentemente economico. L’algoritmo capo potrebbe così licenziare questo suo sottoposto petulante e distratto, farlo finire sotto il ponte degli algoritmi falliti a crepare di fame matematica.

 

BAMBINO ITALIANO

Come l’orso marsicano, la vacca agerolese e il capovaccio, il bambino italiano è una specie a rischio di estinzione e quindi accuratamente protetta: sia nelle famiglie che negli asili e nelle scuole ormai fino oltre il trentacinquesimo anno d’età. Non è detto che misure pur così drastiche saranno sufficienti. Il bambino italiano proliferava infatti in habitat acconci, che però sono stati spietatamente eliminati: casupole di villaggi in cui la vita procedeva promiscua tra adulti e animali, monolocali urbani subito cadenti, loculi in cui si condividevano gli spazi odorosi con nidiate di fratelli, nonne serenamente sdentate, cugini di ogni grado, ottimi per formare squadre di calcio straccioncelle nei campi di periferie urbane in feroce espansione. La proliferazione dei bambini italiani era favorita dalla condivisione di pasti elementari e monotoni, dal lasciarli ruzzolare in prati non disinfettati, nelle scuole alla mercede di maestre stolidamente severe e tutt’altro che psicologiche. Menarli si riteneva temprasse il carattere. Nella mancanza di acqua corrente, riscaldamento, frigorifero, tv e cellulari, mancando spesso il già letale telefono in duplex, gli adulti italiani dedicavano un tempo ormai scomparso alla procreazione, lasciando che i bambini se la vedessero un po’ da soli. Abitando in spazi adeguatamente erotici come quelli sopra descritti, gli italiani adulti ottemperavano al comandamento biblico della moltiplicazione delle creature. La libido veniva fomentata da eccitanti infallibili come le cambiali in protesto, le rate per ogni cosa, i vestiti e le scarpe passate dal fratello grande al minore. Si passò negli anni del Boom dalle nidiate di figli al figlio unico e, in questo secolo, al nulla o quasi. Arrivati alla civiltà in cui ci si dà da fare per essere sterili e artificiosamente giovani per sempre, si osserva attoniti e scandalizzati l’ostinazione indecente di popoli enormi, poveri e minacciosi a mantenersi oscenamente prolifici.

 

BUON SENSO

Pare che nelle conversazioni, nei dibattiti, forse soprattutto nei duelli retorici dei politici, non basti dire cose di buon senso, ma bisogna dire che le si sta dicendo: la frase «sto dicendo solo cose di buon senso» pare fatta apposta per mettere in difficoltà l’avversario, che dovrà intanto prendersi il suo tempo per capire se gli venga effettivamente proposto qualcosa di piano e ragionevole o gli si stia rifilando un imbroglio: mentre pensa, e cioè è incerto, si è già giocato la platea.

Chi afferma con umiltà satanica che sta dando solo voce al buon senso, si sta in ogni caso dando ragione da solo: non è il buon senso la ragionevole voce della ragione? – Se non la capisci, non è che non capisci me, non capisci il meglio del mondo; quindi sei scemo, o cattivo, o interessato. Attraverso di me, il Buon Senso sta dicendo al mondo che fai anche un po’ pena.

 

CONCEDERE

Verbo usato dai giornali italiani a proposito delle interviste rilasciate da uomini e donne di potere. In questi casi i giornali stessi annunciano interviste concesse anche quando queste sono state pretese proprio dai potenti di turno per dare notizia al mondo che esistono ancora. Quando invece viene intervistata la commessa che ha assistito all’atterraggio di una squadriglia di UFO, o interrogato un turista cingalese che ha vinto al gratta e vinci un miliardo in bitcoin, o interpellato una negazionista di qualunque cosa che ha avuto un tête-à-tête in esperanto su questioni altamente filosofiche con il mostro di Loch Ness, le interviste sono semplicemente fatte, le dichiarazioni sono raccolte e i fortunati sono stati sottoposti a domande. In nessun caso si parlerà di interviste concesse.

 

IO SONO

Prima persona del verbo essere: come si sa, tra i verbi il più impegnativo. «Io sono quello che sono» disse Elohim a Mosè, ma lui era Dio, anche se allora era giovane, qualche millenario battito di ciglia prima – come passa il tempo – di quel senile appannamento che chiamiamo secolarizzazione. Con «io penso e quindi io sono» Cartesio ci mise nei guai: per dire di essere, si doveva dimostrare che si stava pensando: quasi tutti si arrendevano prima. Flaubert complicò terribilmente le cose col suo «Madame Bovary sono io»: su questo non osiamo approfondire, ma per chi volesse c’è sempre L’idiota della famiglia di Jean-Paul Sartre, dove quell’Io che dice «sono» (una Madama melodrammatica e suicida) si rivela malmostoso, dolente e labirintico.

«Io sono» del verbo essere è il presente indicativo, e l’indicativo è il modo della realtà: chi dice Io sono, dice che non ci piove sul fatto che lui è. Adesso in libreria primeggia Io sono Giorgia: autobiografia della leader del partito più di destra nel nostro parlamento. Nella classifica di Amazon, è primo in classifica. Avrà quindi un seguito. Aspettiamo curiosi il titolo. Il libro sta per avere una promozione nelle scuole di stato; la presenza degli allievi sarà giustamente obbligatoria: avremmo suggerito il sabato, in ricordo di certi sabati che pare piacciano ancora molto a certi elettori di «Giorgia», perché, come dicono i nonni e Petrarca, certe cose le si capisce solo se le si conosce per prova.

Da molto tempo si può insinuare che il verbo essere, almeno all’indicativo, simpatizzi per la destra; congiuntivo e condizionale potrebbero fare un’educata e controversa coppia di centrosinistra, o almeno individuare uno schivo signore di simpatie moderatamente liberali. V’immaginate l’amletico Montale che lascia un’autobiografia intitolata Io sono Eugenio? Lui che poetava che si può dire solo «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»? Chissà perché ci suonerebbero strane autobiografie di politici, che pur hanno contato qualcosa nella nostra storia, intitolate Io sono Alcide, o addirittura Io sono Camillo Benso. Irrimediabilmente extra-parlamentare di sinistra resterebbe Arthur Rimbaud col suo «Io è un altro». Adesso, invidiosi della signora che dice di essere Giorgia, sospettiamo che essere sia un verbo, più che di destra, pazzo: «Un re che crede di essere un re è un folle», diceva Jacques Lacan, che neppure tutto a posto pare che fosse.