Isnenghi, che gran storia la vita

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Lo storico si racconta in Vite vissute e no. I luoghi della mia memoria

di Gabriella Ziani

 

Un anello di famiglia che passa ai primogeniti attraverso almeno cinque generazioni. Un antenato che (forse?) era stato fra i Mille di Garibaldi. Un arco esistenziale che si compie con l’ottenimento della cattedra a Ca’ Foscari, l’università veneziana dove i suoi genitori si erano conosciuti e che per la madre era già un luogo predestinato. Il bambino e ragazzo cresciuto a Venezia fra le oscure ombre degli anni di guerra e dell’ambiguo dopoguerra è attorniato, oltre che da ampie e frastagliate narrazioni e memorie familiari, da suore, preti e frati in ambito scolastico e parascolastico, ma dopo il liceo e l’esperienza con la Fuci, l’organismo degli universitari cattolici, diventerà un anticlericale convinto e dichiarato, opponendo innanzitutto il Gran rifiuto alle pressioni dei “guardiani della Chiesa” che chiedevano – nel “bianchissimo” Veneto di fine anni Cinquanta – il voto Dc (sarà invece il Psi la sua casa): uno dei tanti orgogliosi rifiuti (no alla rivoluzione, meglio l’alternativa, no alla violenza sessantottina e alle derive del Potere operaio di Toni Negri che sconvolsero Padova, no comunque all’adesione al Pci, no alla presenza sui giornali – La Repubblica, Il Corriere della Sera – se snobbano la firma o veleggiano verso revisionismi sgraditi). Accanto svettano tanti entusiastici “sì”, per ben tre volte “toccando il cielo con un dito” (quando arriva la prima vera cattedra, a Torino, “due volte lo tocco”).

Forse solo uno storico può scrivere la storia di se stesso, e quando si chiama Mario Isnenghi – il più grande “lettore” di contesti e simboli, di memorie stratificate, di territori e segmenti sociali e intellettuali, specie della Grande guerra ma anche del fascismo – si entra in Vite vissute e no a pagina uno per una cavalcata senza respiro fino a pagina trecento e passa. Non senza notare che dalla dedica fino all’ultima parola del libro il nome è uno, Sandra, la moglie scomparsa nel 2018, dopo una caduta nell’amata casa delle vacanze ad Asiago. Tre mesi dopo inizia la stesura di questa storia, che certo è personale, anche ampiamente familiare ma, soprattutto, molto politica e molto collettiva. Il “noi” (famiglia, amici, colleghi, studenti, gruppi, associazioni, riviste, aule, “baronie”, avversari e compagni di strada su molti ramificati percorsi) è la cifra dello storico militante: “Io tendo a far gruppo”. Il ricorrente ”io-me” è invece il forte atto di presenza che misura autostima e consapevolezza del soggetto/oggetto mentre si osserva a ritroso nella sua disciplinata ma spesso irriverente scalata al mondo, con felici scatti di ironia e autoironia, a partire da quei «me le faccio e me le dico?», «cala Trinchetto», «è l’Italia cattolica, bellezza», e che rammentando un primo brutto voto pigliato in francese all’epoca in cui era un ragazzetto molto perbene e conscio di sé commenta con spirito: “Il bello della fucilazione è che si può solo cadere in piedi”. Ma quanto prezioso è questo punto di vista “trasversale”, autonomo, frizzante di cortocircuiti fra alto e basso, consapevole che ogni atto nel momento in cui lo si vive concorre a fare la storia nostra e degli altri, e che dunque le scelte s’impongono e non sono sempre facili. Anche fare il “pesce in barile” quando altri fanno la “rivoluzione” è un modo di porsi in maniera da potersi ritrovare. E quanta ragionata “pietas” invece nel considerare il ruolo di chi si è trovato a vivere, storicamente, tra incudine e martello: «Vite degli uomini e delle donne comuni che si muovono in sintonia con l’ora che volge (…) si dimostrano confacenti a quella che per gli altri può essere l’Era fascista e per loro è, semplicemente, la vita che gli è toccata in sorte» (detto a proposito di Intellettuali militanti e intellettuali funzionari pubblicato con Einaudi nel 1979, ma si sente un’eco della situazione familiare). Quanto al giovanotto aitante di belle speranze, sa di essere caduto in un’epoca buona. Dice degli anni Sessanta: «Avere 20 anni al momento giusto è furbo anche se non dipende da noi». Naturalmente in questo lungo arco di tempo la situazione e il posizionamento politico sono una variabile sempre in movimento, ma sempre da “indipendente di sinistra”, che ha votato Pci ma anche no, sempre leggendo il Manifesto e scrivendoci sopra, sempre convinto che il vecchio partito socialista sia stato «un bel correttivo […] problematico e persino libertario, accanto o in alternativa al mastodonte ben più compatto e omogeneo del Pci». Il quale comunque era un «riequilibrio rispetto al potere del blocco governativo». E qui il professore militante cala un colpo di scure contro le svolte: «La svolta della Bolognina ammette: non eravamo quello che dicevamo di essere, eravamo quello che dicevano gli avversari, asserviti e infidi, non potevamo e non dovevamo andare al governo, in Italia si votava solo pro forma, ricominciamo tutto, pardon. Ho considerato un suicidio – scrive Isnenghi – chiudere il Pci, una postuma ammissione di colpa che, per salvare e riciclare un gruppo dirigente, schizza su tutti noi – decenni di vita civile, milioni e milioni di elettori – un eccesso di candore e una patente di fango».

Isnenghi nasce a Venezia nel 1938, ramo materno genovese e paterno a Riva del Garda, ma sempre e solo con la Serenissima s’identifica, allargandosi con l’occhio dello studioso a tutto il Veneto, stimato non provinciale, ma fulcro e specchio della nazione, dunque in primo piano per lo storico che si definisce “nazionalista di sinistra”. Liceo Foscarini, Università a Padova, primi viaggi in tutta Italia ma specialmente in certa Toscana (Poppi non sarà una suggestione, si chiede, delle Novelle della nonna di Emma Perodi?), per merito della mamma – insegnante d’inglese – anche soggiorni a Roma e “scambi” di vacanza con coetanei in Olanda e a Parigi. Chiusa l’esperienza con la Fuci, inizia quella con l’Unione goliardica italiana (Ugi) che lo porterà per una riunione anche a Prosecco sul Carso triestino, e nel cui ambito si aprono amicizie con persone che faranno anch’esse, a loro modo, epoca: Gianni De Michelis, per esempio, con cui è al momento “culo e camicia”. A un congresso a Genova osa contestare il potente Mario Alicata, critico letterario e deputato del Pci dal ’48 alla morte (1966): lo ricorda come uno dei suoi non isolati “a solo”. S’impegna per la riforma della scuola, ha contatti con Trieste (Elvio Guagnini, Alberto Pincherle), dove già è diretta l’intelligenza del cuore per gli studi su Slataper, Stuparich, la Grande guerra, tema che dopo memorabili libri gli procurerà «la mia – scrive – identificazione pubblica». Che si connota anche per la tensione ad affermare una storiografia laica, “di sinistra”, in opposizione a quella cattolica che ha il suo nume in Gabriele De Rosa. Nel 1967 esce il primo libro, I vinti di Caporetto, intanto già è stato cooptato nella rivista Belfagor di Luigi Russo, da laureando il suo giovane professore Giorgio Pullini gli procura una supplenza a Feltre, cui seguiranno le Magistrali di Venezia – dove conoscerà Sandra, allora studentessa all’ultimo anno, che sposerà nel 1965, “secondo matrimonio civile a Venezia”. Il fuoco dell’insegnamento inteso come “passione civile” non sarà spento nemmeno all’ora della pensione, attimo di cui scrive: “Non si scampa: è finita”. Per poi avvertire: “Non finisco ai giardinetti”… E infatti.

Dal ’62 al ’66 insegna all’Istituto magistrale di Chioggia, conosce l’astro nascente Massimo Cacciari, cerca di fondare una casa editrice mentre i fratelli De Michelis partono con la Marsilio, che gli pubblicherà I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra, già rifiutato da Laterza, il quale poi, pentito, lo mette sotto contratto: uscirà tre anni dopo Il mito della Grande guerra da Marinetti a Malaparte, l’inizio di una fulgida carriera (“da allora non mi fermerò più”), che ha come terzo iniziale pilastro Giornali di trincea (Einaudi, 1977). Il letterato è “in marcia verso la storia”, e sarà Riccardo Scrivano a cooptare Isnenghi per un incarico di Storia del giornalismo a Scienze politiche (“tocco il cielo con un dito”, appunto). Si lascia eleggere nel Cun (Consiglio universitario nazionale), dove inaugura una frequentazione anche amicale con Luigi Firpo.

Arrivano gli anni delle contestazioni dure: «Né con gli autonomi né a priori con le istituzioni». Isnenghi cerca la “terza via”, ma le certezze tremano non tanto di fronte alle incursioni di Toni Negri (il suo dichiarato punto di riferimento è Rossana Rossanda) quanto davanti a studenti in rivolta che esigono il “27” in nome dei diritti egualitari del proletariato, ed è qui che il professore dubita di essere d’élite: “Pensieri afflitti e impotenti”. È l’unica riga in cui appare un’eco del titolo: “Fantasmi di vite non vissute”. Perché tutto il resto è vissuto appieno senza sosta, con attività di “maieuta” perfino nel contesto vacanziero di Asiago subito sollecitato a storicizzarsi, e tolti i giochi infantili troviamo il pendolare Isnenghi ad annoiarsi solo nella stanza d’affitto a Torino, noia compensata dalla prestigiosa cattedra di Storia contemporanea conquistata nel 1985 dopo aver patito i giochi malsani delle baronie (a nulla valevano i titoli, la domanda era: “Chi ti porta?”). È lì che dopo aver due volte toccato il cielo con un dito il professore decide che ormai “bisogna pensare in grande”. E nasceranno Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi, 1848-1945 (Mondadori 1989), L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri (Mondadori 1994), I luoghi della memoria (tre volumi, Laterza 1997) e almeno un’altra quindicina di saggi, oltre alla direzione di riviste e alla presidenza dell’Iveser, Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea.

L’ultima felice stagione è, finalmente, la cattedra a Ca’ Foscari. E il “maestro” scoprirà quanto è esaltante allevare giovani di talento, e quanto deludente non riuscire a istradarli in una carriera: «Non volevo e non ero capace di essere un intraprendente e combattivo “barone”». Come le innumerevoli iniziative pubblicistiche ed editoriali meriterebbero un discorso a sé, così anche i percorsi universitari, che si concludono con amare parole: «Io sono entrato in una università italiana fatta in un modo, l’ho attraversata mentre brutalmente e vorticosamente cambiava e ho fatto a tempo ad aggirarmi a occhi aperti fra le macerie. Casualmente, per ragioni anagrafiche, posso essere una fonte sulla mutazione e sullo sfacelo: taglio dei finanziamenti pubblici, idealizzazione delle università private, insegnamento telematico a distanza, sottomissione della formazione ai bisogni e agli spiriti delle aziende, imperialismo dell’inglese, modelli esteri per docenti e discenti da accogliere con riverenza acritica, attacco denigratorio alla storia, alla politica, allo Stato. Non insisto. Nel mio isolotto ho continuato a fare come prima. Ma così quelli che vengono dopo non sono solo ‘orfani’ in senso fisiologico, da pensionamento, ma per tutta una situazione diversissima dalle attese, a cui o ci si adegua o non ci si adegua». La linea indicata è sempre quella: scegliere e saper scegliere, costruirsi la propria storia per determinare il passo della Storia.

 

 

Mario Isnenghi

Vite vissute e no

I luoghi della mia memoria

Il Mulino, Bologna 2020

  1. 328, euro 24,00