Prima dell’alfabeto

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Una mostra sulla scrittura cuneiforme a Venezia all’Istituto Veneto di Campo Santo Stefano

di Marina Silvestri

La scrittura cuneiforme è stata in uso per 3500 anni, mentre i segni alfabetici che noi usiamo ne hanno solo…2500. Lo ricorda al visitatore il materiale informativo della mostra Prima dell’alfabeto. Viaggio in Mesopotamia alle origini della scrittura, allestita a palazzo Loredan a Venezia, una delle sedi dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, aperta fino al 25 aprile 2017. La Mesopotamia, culla di civiltà, – la terra dei Sumeri, degli Accadi, degli Assiri e dei Babilonesi,- sorprende per l’altro grado di cultura materiale, amore per l’arte e ‘qualità della vita’: l’humus in cui nacque e si evolse la scrittura. La mostra è curata dal professor Frederick Mario Fales dell’Università degli Studi di Udine, uno tra i più noti assirologi e studiosi del Vicino Oriente e promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue, presieduta da Inti Ligabue, figlio dell’imprenditore archeologo e paleontologo, scomparso nel gennaio del 2015. Inti Ligabue scrive: “Ho viaggiato svariate volte assieme a mio padre che questa collezione ha raccolto decenni fa, ogni volta orientandomi prima e perdendomi poi; cercando di comprendere l’idea contenuta in quei messaggi così originalmente trasmessi. Non avevo mai compreso appieno il vero ed immenso valore umano, l’incredibile potenza culturale e la modernità di quell’antichissimo mondo. Quelle voci sono appartenute a genti e popolazioni che occorre definire come “nostre contemporanee”, perché riproducono storie, simboli e gesti di un vivere quotidiano che ancora pratichiamo ed elaboriamo. Oggi comprendo appieno quanto questa rivoluzione umana, quella della parola scritta – oltre ad essere figlia di un processo intellettuale, scientifico e di un bisogno – è stata anche scelta di identità e cultura che ha prodotto ordine, civiltà e certezza del diritto, cambiando in modo visibile e permanente i rapporti di una società”.

Sono quasi 200 le opere della Collezione esposte per la prima volta: tavolette cuneiformi, sigilli cilindrici o a stampo, sculture, vasi, placchette, armi, piccole figure, raffinati oggetti artistici e di uso comune con intarsi, in osso, in conchiglia, in oro o in avorio, a cui sono affiancati prestiti del Museo archeologico di Venezia, come frammenti di bassorilievi rinvenuti dallo scopritore di Ninive, Austen Henry Layard, che nell’ultimo periodo della sua vita si era ritirato proprio a Venezia, a palazzo Cappello Layard (donò gli oggetti alla città nel 1875), nonché del Museo di Antichità di Torino da cui proviene un bassorilievo assiro raffigurante il re Sargon II, scoperto nel 1842 da Paul Emile Botta – console di Francia a Mosul – e da lui donato a Carlo Alberto di Savoia.

Immagini e racconti visivi testimoniano l’affermarsi della scrittura cuneiforme nella Terra fra i due fiumi, in un mondo che 5000 anni fa aveva fatto proprio il valore della scrittura “… Quel tempo dove i pensieri diventavano disegni, poi segni e simboli, fu la grande via di Damasco dell’umanità…” come osservò Giancarlo Ligabue. Dai primi pittogrammi del cosiddetto proto-cuneiforme, rinvenuti a Uruk – annotazioni rispondenti ad un sistema amministrativo e contabile già strutturato – all’introduzione della fonetizzazione (dai segni-parola, ai segni-sillaba), che le simulazioni multimediali dell’allestimento aiutano a ripercorrere con grande efficacia visiva. La nascita della scrittura, avvenne quasi contemporaneamente in Egitto e in Mesopotamia verso il 3200 a.C. per diffondersi poi rapidamente anche in aree lontane. Le tavolette d’argilla erano incise da scribi istruiti nelle scuole, che avevano il compito di redigere i documenti nei segni ‘standardizzati’.Tali documenti di cui si conservano intere biblioteche, avevano funzioni contabili, giuridiche, geografiche, di relazione fra le diverse città-stato, religiose e celebrative, e letterarie; oggi permettono di ricostruire quelli che erano i commerci del tempo: soprattutto legnami e animali, pecore, capre, montoni, buoi, i traffici carovanieri tra Assur e l’Anatolia, le compravendite di terreni e di case con relativi contratti, e molto altro.

Il curatore della mostra F. Mario Fales aveva già lavorato sulla collezione Ligabue negli anni Ottanta pubblicando un volume intitolato Prima dell’alfabeto, titolo ripreso per questa mostra di Palazzo Loredan, a cui ha lavorato anche l’archeologa udinese/berlinese Roswitha Del Fabbro, che ha partecipato a scavi in Siria, Turchia e Kurdistan. L’esposizione propone accanto alle tavolette, una collezione di sigilli di grande pregio artistico che si possono ammirare dal vero e in dettaglio tramite modelli tridimensionali realizzati con scansioni 3D e in proiezioni olografiche. I sigilli venivano impressi fin dal Neolitico sulla ceralacca a garanzia della chiusura di merci e stoccaggi e, con l’avvento della scrittura, vennero apposti anche sulle tavolette o sulle buste di argilla (utilizzate fino al primo millennio) per autenticare il documento; intorno alla metà del IV millennio furono sostituiti con sigilli a stampo. I sigilli cilindrici erano cesellati da abili artigiani, gli sfragisti, e realizzati in pietre semipreziose come i lapislazzuli, l’ematite, la cornalina, il calcedonio, l’agata, il serpentino, il diaspro rosso e verde, il cristallo di rocca. L’arte di incidere gemme e pietre dure, la glittica, era una delle produzioni più caratteristiche delle culture del Vicino Oriente antico, e precedette le lavorazioni greche e romane. Tramontata la loro funzione, i sigilli cilindrici, montati su catenine o spille, vennero riutilizzati come amuleti, ornamenti o oggetti votivi; presentano motivi iconografici miniaturizzati di cui sono riconoscibili i periodi, gli stili, le aree geografiche, le tecniche, e fra queste l’introduzione del trapano e della ruota tagliente. L’idea di adattare un disegno a una superficie curva, in modo da ripeterlo ad libitum, testimonia la grande capacità inventiva, narrativa e manuale. Sono raffigurate situazioni di diversa ambientazione: processioni sacre, scene di guerra, sfilate di prigionieri, momenti di vita quotidiana, banchetti e libagioni. E non mancano le scene mitologiche del pantheon mesopotamico, con il dio solare Samash, il dio della tempesta Addad, il dio delle acque dolci Ea, o Enil signore del cielo e degli inferi e la dea Inanna (in sumerico) Isthar (in semitico) signora della fertilità, dell’amore e della guerra, nonché il semi-dio Gilgamesh, sovrano di Uruk colui che per primo raccontò il Diluvio e scese nell’oltretomba. Numerose e tenerissime le rappresentazioni di animali e di maternità che parlano di luoghi incantati, ricchi d’acqua, di vegetazione e fauna. Un passato lontano che rende ancora più drammatici gli odierni scenari di guerra in una terra oggi martoriata.

La Mesopotamia antica corrisponde agli odierni Iraq, Kurdistan iracheno e in parte alla Siria nord-orientale, la Turchia meridionale, l’Iran occidentale ed il Kuwait. “Oggi il Vicino Oriente si è allontanato in maniera impressionante – scrive Mario Fales – per la Realpolitik, per i rapporti umani e culturali tra popoli dell’area circum-mediterranea, e anche per me personalmente. Solamente in televisione mi è oramai dato rivedere i cartelli stradali dei luoghi sull’alto Tigri come sull’alto Eufrate dove ho diretto gli scavi…Mosul, Jerablus, Kobane… il ricordo evoca luoghi di vivace e gaio mercato, di visite cordiali nelle case, di interminabili trattative – un tè dopo l’altro – per ottenere operai per l’attività archeologica Oggi cerco invano in Tv i volti di chi conoscevo fra i profughi che scappano in gruppi familiari a piedi, non riconosco più le loro abitudini nella miriade di smartphone che accompagna le valige di cartone, non comprendo esattamente come quel mondo, a lungo tenuto in fatalistico sonno da iconici e paternalistici dittatori, sia diventato in breve una Geenna di tutti contro tutti, a colpi di lanciamissili, conversioni di massa e scudi umani. Il Vicino Oriente sembra oramai essersi trasformato in un pianeta remoto, insensato e insondabile, come il Tlön o Orbis Tertius immaginato da Jorge Luis Borges.”

 

 

 

 

Nel catalogo edito da Giunti testi di Roswitha Del Fabbro, Stefano de Martino, Paolo Matthiae, Piergiorgio Odifreddi e David I. Owen, coordinamento editoriale di Adriano Favaro.