Il sogno negato di Linuccia

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Due soggetti cinematografici di Linuccia Saba, ora ‘sottratti all’oblio’ e pubblicati in questo saggio a cura di Marina Silvestri

di Graziella Atzori

 

Nel ringraziare quanti hanno permesso l’accesso alle fonti documentarie, persone fisiche ed istituzioni, archivi e biblioteche romane e triestine, Marina Silvestri curatrice di Linuccia Saba e il cinema, un sogno negato, getta un ponte tra le due città, una delle capitali mondiali del cinema e Trieste, da sempre appassionatamente cinefila. Non è un caso che proprio la città di san Giusto abbia dato i natali a critici quali Callisto Cosulich e Tullio Kezich, e a un regista della statura di Franco Giraldi. Intorno agli anni Dieci del secolo scorso, a Trieste esistevano 21 sale cinematografiche, frequentate da circa diecimila persone al giorno, di ogni estrazione sociale. Dato strabiliante che attesta non solo la floridezza economica, ma il carattere leggero ed epicureo di questo popolo al confine tra est e ovest europeo. Ma il cinema è anche testimonianza e verità, sogno, immaginazione, affondo nei territori in ombra della psiche e loro illuminazione in una parete che diviene tutto.

Un libro affascinante e intrigante: cosa ha a che fare Linuccia Saba con ciò? Moltissimo. E altre domande sorgono conseguenti al titolo: un sogno negato. Perchè negato a una donna? Perché negato a questa particolare donna? Un’altra artista triestina, Anna Gruber, dopo essersi diplomata presso il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, lavorò con numerosi registi prestigiosi come segretaria di edizione e aiuto regista, per poi ritornare a Trieste e fondare la Scuola dell’Attore ispirata al metodo Stanislavskij. Proprio tra le carte di Anna custodite nel Fondo Benco-Gruber presso la Biblioteca Civica triestina Marina Silvestri ha ritrovato casualmente due soggetti di Linuccia, ora ‘sottratti all’oblio’ e pubblicati in questo saggio. Essere donna ed esprimere la propria creatività è ancora sempre un’impresa e fatica doppia rispetto a quella sopportata da un uomo. Ne dà conto una lettera di Anita Pittoni indirizzata a Linuccia in data 9 giugno 1962: «Io ho sgobbato tutta la vita come un facchino, […] e mi trovo alla mia età senza posizione, senza un paravento, né la stima che tutti mi cantano di avere per me».

Linuccia fin dall’adolescenza respira il cinema tramite lo zio Enrico Wölfler fratello di sua madre, imprenditore e gestore di sale cinematografiche. Lo stesso Saba preparava recensioni ai film proiettati al cinema Italia del cognato, su volantini purtroppo perduti. Linuccia è una splendida adolescente dalla figura minuta ed elegante con gli «occhi di cielo» evocati dal padre, occhi grandi leggermente sporgenti, rinascimentali, parlanti, capaci di esprimere tutto l’empito del cuore e di confortare «anime perdenti», come ebbe a scrivere di lei Sergio Miniussi. Tenera Linuccia e pure donna intelligente, testarda e determinata, volitiva, ma non fino al punto da sganciarsi completamente dalla pesante influenza del genio paterno che l’avrebbe voluta tutta per sé, rinchiusa fra le mura domestiche. Ai vari pretendenti della figlia, Saba con sguardo gelido e mentalità dominante patriarcale domandava «Quanto vale la Linuccia?» Un’impostazione contrattuale degli affetti e dell’amore, la sua, spiegabile alla luce delle teorie psicanalitiche freudiane che creano un’equazione simbolica tra denaro e amore, ben conosciuta dal poeta, con scarsi e quasi nulli risultati, perlomeno in famiglia. Linuccia assume su di sé il «doloroso amore», gli ossimori e le aporie di Saba non soltanto letterarie. Saba l’amava fortemente, con una passione edipica mai risolta, impedendole il matrimonio, tanto che Linuccia e Lionello Zorn Giorni (anche lui sceneggiatore e pittore) dovettero sposarsi segretamente. Sceneggiata penosa, questa, degna di un film.

A diciott’anni Linuccia era riuscita a sfuggire alla presenza incombente del padre, rifugiandosi a Milano, sorretta dall’amicizia di Bobi Bazlen. Mentre Saba resterà sempre un freudiano, Linuccia grazie a Bazlen entra in contatto con il pensiero junghiano e con quell’universo magico ed esoterico che diverrà componente essenziale della sua Weltanschauung, insieme ad amicizie preziose professanti lo stesso pensiero di tipo intuitivo, quali la pittrice Maria Lupieri che dipinge tarocchi, o il pittore Corrado Cagli, suo mentore nelle arti figurative, aspetto magico ben compreso da Gillo Dorfles.

L’incontro e poi l’amore con Carlo Levi occupa pagine toccanti e brucianti di dolore. I due si conoscono a Firenze durante la guerra; entrambi vivono la condizione di clandestini, lui esponente di spicco della Resistenza, lei con la famiglia condannata a una fuga continua, coperta dalla pietà generosa di amici e intellettuali (Montale in primis, e molti altri). Sono i tempi in cui l’angosciato Saba gira con una pastiglia di cianuro in tasca, anzi con due, una per la moglie, deciso a darsi la morte piuttosto che cadere nelle mani dei nazisti. Ma attende il consenso di Linuccia… La figlia diviene dea della Giustizia, possiede, deve possedere suo malgrado la forza che sorregge.

Nel dopoguerra seguendo Levi, si trasferisce a Roma. dove tutta l’intellighenzia italiana, nonché registi e cineasti transita in via Margutta e frequenta il caffé Greco. Di quella temperie straordinaria di idee e creatività, sfociata nella grande stagione del Neorealismo, Silvestri dà un quadro vivo, intenso e quasi palpabile, con l’abilità evocativa che le è propria. Linuccia è parte vitale del quadro. Sarà la segretaria di fiducia del padre e di Levi. Tramite le conoscenze che contano, nell’ambiente e nel gotha della cultura la figlia contribuirà in modo determinante alla fortuna letteraria del padre. Senza Linuccia Saba sarebbe rimasto nell’ombra, nonostante l’alta poesia.

E per se stessa? Per sé l’affetto degli uomini mai soddisfatto, l’affetto infinito e totale degli amati animali, con cui la vediamo nelle belle foto d’archivio. Linuccia è una grande anima al servizio di grandi anime che forse non la compresero. Incarna quell’intelletto d’amore dantesco, altro nome dell’anima, il femminile dell’essere, troppo spesso misconosciuto.

Le due sceneggiature ritrovate, una ventina di pagine o poco più, raccontano di gente a corto di soldi, angustiata da sensi di inferiorità, timidezza, scarsa autostima. In Il triangolo della virtù prevale un ossessivo sentimento di colpa per una somma rubata. La valenza simbolica del denaro salta agli occhi. Marina Silvestri nota con acutezza che «si può rubare un destino». Anche alla canarina azzurra Linuccia – favolosa espressione dedicatale dal marito – è stato rubato un destino?

Il secondo testo, più breve, Una storia milanese narra di uno scampato suicidio. Da leggere tutto d’un fiato. Definito da Sergio Grmek Germani, presidente del Festival Internazionale del Cinema e delle Arti I Mille Occhi di Trieste, «completo e perfetto». Le tematiche sottese, pur se sviluppate secondo canoni neorealisti dell’epoca, possiedono un respiro universale; come tutti ben sappiamo i soldi sono salvezza e dannazione, necessità, schiavitù, generoso impulso o grettezza e fonte di sfruttamento.

Il tema del mondo negato è una cifra dell’indagine sociopsicologica di Marina Silverstri, costituisce una delle chiavi di lettura delle sue opere. Ricordo qui, in chiusura, il documentato saggio Lassù nella Trieste asburgica. La questione dei regnicoli e l’identità rimossa (LEG, Gorizia 2017), dove l’identità rimossa è un dato storico ma pure rimozione di ogni figura umana perdente; in Ambraverde (Palombi, Roma 2013), romanzo giocato tra storia privata e grande Storia che si intrecciano, nuovamente vengono negate le ragioni del cuore contrapposte allo status sociale ed ai pregiudizi di casta nobiliari; così in un saggio sulla donna triestina intitolato Il mito infranto; donne, ancora e sempre donne, dunque, portatrici di una grande luce. Proprio come gli occhi di cielo di Linuccia.

 

 

Marina Silvestri

(a cura di)

Linuccia Saba e il cinema,

un sogno negato

Eut, Trieste 2019

pp.110, euro 12,00