Quel che resta da dire su Wanda e Marion

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Le sorelle Wulz e tanta Trieste: una ricognizione mancata

di Roberto Curci

 

Quanti sabotaggi ha provocato l’infame virus anche nel mondo dell’arte! Mostre già aperte, mostre da aprire, mostre annunciate e calendarizzate, mostre progettate e prossime venture: tutte ficcate di corsa in un gigantesco freezer o cancellate perfino dalla lista dei buoni propositi futuribili. Ha supplito l’on line, si sostiene per confortarsi; ma certo i 13 minuti scarsi in cui è stata riassunta l’epocale rassegna su Raffaello – un solo esempio fra tanti – sono risultati affatto incapaci di attizzare quell’emozionata meraviglia che un “de visu” alle Scuderie del Quirinale avrebbe indubbiamente acceso. Diciamolo: all’arte lo streaming non rende un buon servizio, se non per produrre un’epidermica infarinatura didattica. E se, come pare, il futuro è questo, è un futuro bruttarello assai, anche a voler considerare le mostre d’arte come un genere voluttuario, pressoché irrilevante dinanzi alle dimensioni del mostruoso cataclisma globale datato 2020.

La scontata, amara riflessione riporta alla mente un precedente sabotaggio, che nulla ha a che fare con l’attuale macello, risalendo a un paio d’anni fa. Si trattava della buona idea di un focus innovativo sulla realtà professionale ma soprattutto umana di due figure ben note nella Trieste del Novecento, ma forse non indagate appieno nelle loro interdipendenti fisionomie: Wanda e Marion Wulz. Una mostra, un libro, un carotaggio che si auspicava illuminante, anche per le ricche connessioni con la realtà sociale e culturale cittadina. C’era il titolo (“Trieste e due donne. Wanda e Marion Wulz, le sorelle fotografe”), c’era la pingue scaletta e c’erano, a buon punto, i “lavori in corso”.

A sabotare la buona idea fu, involontariamente, il patatrac della Fratelli Alinari, dove l’archivio della dinastia Wulz, assieme a documentazioni e registrazioni, era – come si sa – confluito già da tempo, con relativa scia di vecchie polemiche e gelosie (Firenze che scippava Trieste di un suo patrimonio… Corbellerie). Comunque non se ne fece nulla.

Eppure il tema mantiene la sua validità, dato che, nel loro inusuale, anomalo ruolo di fotografe e di titolari di studio fotografico, quindi pure di imprenditrici di sé stesse e totalmente responsabili del proprio lavoro, Wanda e Marion rappresentarono – soprattutto negli anni che segnarono la crescita dello studio, dopo la morte del padre Carlo: estremi anni ’20 e interi anni ’30 – un campione quasi emblematico del ruolo della donna autogestita in un’epoca che ben altri compiti e vincoli assegnava alla figura femminile. E quindi la loro attività scorse in parallelo a quella di parecchie altre donne di cultura triestine (scrittrici, pittrici, musiciste, giornaliste, libere pensatrici destinate anche a rilevanti ruoli politici), a testimonianza e conferma di un’emancipazione in netto anticipo sui tempi e su altre realtà italiane.

Ma c’erano altri aspetti meritevoli d’indagine: l’affinità e la diversità delle rispettive tendenze creative di Wanda e Marion (della quale si prefigurava un degno recupero della degnissima produzione pittorica), la dimensione privata del loro mutualistico rapporto di convivenza e collaborazione, il loro identikit umano e psicologico, l’intensa frequentazione di numerosi uomini di cultura e, soprattutto, le intersezioni con due donne destinate, l’una a grande fama internazionale, l’altra a una notorietà più circoscritta e di nicchia, vale a dire Leonor Fini e Anita Pittoni. Intenso, in particolare, fu il rapporto con l’allora assai giovane artista-artigiana-poetessa triestina, che con le Wulz convisse per un certo periodo e i cui originalissimi abiti, indossati dalle sorelle (da Marion in particolare), vennero da esse immortalati in una cospicua serie di immagini.

L’intento, insomma, andava ben al di là di una ricognizione del patrimonio fotografico delle Wulz, anzi dei Wulz, coinvolgendo anche l’attività del padre Carlo, nato nel 1874, mancato nel 1928 e ritrattista indefesso delle due amatissime figliole fin dai loro primi anni (nata nel 1903 la Wanda, nel 1905 la Marion: anagraficamente, anzi, Vanda Carla la prima, Maria Antonia la seconda). E proprio su Carlo si sarebbero potuti apprendere interessanti dettagli, in particolare sulle sue propensioni politiche che, agli occhi delle autorità austriache, lo resero – negli anni a cavallo dei due secoli – un pericoloso attivista anarchico “capacissimo e proclive a delinquere”. Indubbiamente nel primo decennio del Novecento CarloWulz fu coinvolto nell’attività dei gruppi anarchici che diedero vita (assai breve) ai giornali L’Internazionale e La Plebe e confluirono quindi in un’Associazione del Libero Pensiero, di respiro internazionale. E forse dipese anche dal “ribellismo” del padre il carattere fieramente indipendente di Marion e, soprattutto, di Wanda, che con lui crebbero e collaborarono fino alla prematura dipartita.

Insomma: ce ne sarebbero state di cose da dire. A noi, per consolazione, non resta – oggi come oggi – che gustare (on line, ovviamente) l’intero Archivio Wulz, in cui spiccano le 433 foto intestate personalmente a Wanda e ricche di succose curiosità, al di là della loro valenza artistica e del malloppetto delle cosiddette immagini “futuriste”, con la sovrimpressione di Io+gatto divenuta icona di planetaria notorietà.

Ed ecco, dunque, i molti ritratti di Anita Pittoni, gli abiti di sua creazione indossati da Marion, la stessa Anita in veste di mannequin per gli abiti ideati invece da Marcello Claris, e poi le tante immagini di Paola Borboni e quelle di Marinetti, del violinista Cesare Barison, della scrittrice Pia Rimini, dei pittori Passauro, Stultus, Silvestri, di Nera Mascherini, di Edoardo Weiss, di Irene Camber vittoriosa alle Olimpiadi del ’52, di Kezich padre e figlio, di Mario Valdemarin. Eccetera eccetera.

Guardiamo, accontentiamoci e pensiamo, con fragile ottimismo: “Magari, chissà, alla prossima…”.

 

 

 

Dida:

1.

Wanda Wulz

Io+gatto

Fotomontaggio

 

2.

Marion Wulz

Irene Camber

oro olimpico 1952